lunedì 21 aprile 2014

John Jeremiah Sullivan

Meno caleidoscopico di David Foster Wallace, meno caustico di Hunter Thompson, agli estremi della non fiction americana, John Jeremiah Sullivan è premuroso nel centellinare l’espressione dello stile e della personalità, che appaiono evidenti con l’esposizione dei fatti e delle cronache. La sua è una scrittura che prende dal pop e si nutre di quell’essenzialità e dei suoi cliché, incastrandoli ed elevandoli in un linguaggio e in un’analisi più complessi. John Jeremiah Sullivan armeggia con la materia con tutte le cautele del caso, sa fin dove spingersi e dove fermarsi prima che il suo  saggio si trasformi in un articolo o confonda l’originalità della prosa, sempre brillante, con il dovere della semplice cronaca. Gli argomenti sono tra i più disparati, dal suo bizzarro mentore all’uragano Katrina, dalle utopie di Disney alla plasticità fenotipica e John Sullivan si destreggia con una leggerezza che è il principale tratto del suo stile comune a tutti i brani di Americani. Descrive come non è riuscito a nessuno due casi umani inenarrabili del calibro di Michael Jackson e Axl Rose (e per estensione Kurt Cobain) compresa quella perfetta definizione dei Guns N’Roses che li ritrae come “l’ultima grande rock’n’roll band che non trovava imbarazzante essere una rock’n’roll band. Ci sono migliaia di band al mondo che non trovano affatto buffo il rock, ma di rado ce n’è una buona. Con i Guns, non importava quanto ti sentivi sofisticato in fatto di gusti musicali pop (lasciando da parte per il momento la natura paradossale di questa categoria sociale), non potevi liquidarli”. Anche l’incontro con Bunny Wailer, uno dei resoconti più densi e coloriti di Americani è la dimostrazione di un modello di reportage che privilegia ancora l’esperienza diretta, sul campo, il toccare con mano perché poi John Jeremiah Sullivan scopre che “il vero regalo che mi ha fatto è stato quello di dire no”. La scrittura è pulita, rigorosa, concreta, senza fronzoli, con molte idee e qualcosa da dire anche se John Jeremiah Sullivan si concede, spesso e volentieri, piccole partenze per la tangente e salutari divagazioni per non restare imprigionato nella realtà e nelle sue perversioni. In effetti, Americani offre una delle più efficaci letture e analisi del mondo dei reality mai viste: “Siamo tanto fragili? Dev’essere così. Ce ne sono troppi, semplicemente, troppi programmi e troppa gente nei programmi, perché non stiano rivelando qualcosa di endemico. Siamo noi: un popolo di selvaggio sentimentalismo che piange e solleva pesi”. Da Disney alla scoperta della wilderness americana attraverso la figura di Costantine Samuel Rafinesque, in contrasto con quella ormai istituzionale di Lewis & Clark, o quella dell’apocalittico Marc Livenwood (sempre ammesso che esista) John Jeremiah Sullivan scopre soltanto, come scriveva Rafinesque, che “tutte le storie d’America non sono che frammenti o sogni”. Come direbbe uno dei suoi Americani, un personaggio che ama risolvere le questioni schiacciandole con un timbro gigante: approvato.

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