sabato 28 aprile 2012

Dexter Filkins

In un manuale dei ribelli, Dexter Filkins trova una frase che lo colpisce: “La guerra è fatta di trucchi”. L’ha imparato vivendola in prima linea: giornalista “embedded”, come ha detto in un'intervista, Dexter Filkins è stato “una mosca sul muro” nei suoi anni tra le guerre in Afghanistan e (soprattutto) in Iraq. L’immagine rende alla perfezione l’idea dell’immobilità e della vulnerabilità della sua posizione, dove ha avuto il privilegio, se così si può chiamare, di vivere senza mediazioni o versioni differite, l’essenza della guerra. Ha sentito gli iracheni (sia i nemici, sia gli alleati) mentire agli americani e gli americani mentire a se stessi e se lo è segnato su almeno mezzo migliaio di taccuini mentre cercava di capire perché lui, per non dire un intero esercito, erano lì: “Non c'era dubbio che gli iracheni mentissero agli americani. Ma le bugie peggiori erano quelle che gli americani raccontavano a se stessi. Ci credevano perché faceva comodo, e perché non crederci era un pensiero troppo spaventoso”. Il paradosso è comprensibile in un conflitto senza quartiere (e certo non in senso metaforico), multiforme e parcellizzato dove la guerra ha separato persino la percezione del giorno e della notte. In un altro reportage dei colleghi del New York Times, il sergente David Safstrom diceva: “Stiamo aiutando gente che cerca di ammazzarci. Di giorno li aiutiamo e di notte ci voltano le spalle e cercano di ucciderci”. Affidarsi alle bugie, di fronte alla palese inutilità di ogni missione, è un modo per convincersi ad arrivare fino in fondo anche perché come scrive altrove Dexter Filkins “i giorni possono morire, ma i sogni esplodono” e in Iraq e in Afghanistan c’era già abbastanza roba che saltava per aria. Dexter Filkins l’ha vissuto in prima persona, e così l’ha riportato in Guerra per sempre. Ha corso nel crepuscolo di Baghdad e ha vissuto l’incubo di Falluja. Ha parlato con le autorità politiche, religiose e militari e ha rischiato di essere rapito, ucciso o ferito dal fuoco amico non meno di quello nemico come tutti in Afghanistan e in Iraq. Ha vissuto con i soldati e ha capito l'assurdità della guerra, del prepararsi alla guerra, del vivere la guerra quando glielo ha spiegato il capitano Sal Aguilar: “Quando ti addestri per questo, ci scherzi su, non vedi l’ora di viverlo nella realtà. Poi quando lo vedi, quando vedi com'è veramente, non lo vorresti rivedere più”. Il suo reportage è fatto così: viscerale, senza correzioni, quasi un diario di bordo, giorno per giorno, notte dopo notte, nel tentativo di scovare un’improbabile barlume di speranza, almeno di riuscire a respirare l’aria che rimane sopra la polvere. Non c’è niente di romanzesco, non c’è l’adrenalina della prima linea che da Hemingway in poi ha distinto la vita dei reporter, non c’è gloria e non ci sono eroi, come se Dexter Filkins avesse riletto le esperienze in Afghanistan e in Iraq solo alla luce della verità di Carl Von Clausewitz ovvero che “La guerra è un atto di violenza, e non si danno limiti alla manifestazione di tale violenza”. Tutto resto, che sia utile, politically correct o meno, è falso e superfluo.

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