venerdì 27 aprile 2012

A. M. Homes

Claire Roth, moglie, madre e analista con studio nel centro delle nevrosi mondiali (New York) riceve la richiesta di un appuntamento da Jody Goodman, venticinque anni, un inizio di carriera nell’evanescente tran tran delle produzioni cinematografiche. “Ho qualche problema a prendere delle decisioni sul mio futuro”, le dice per spiegare la sua necessità e A. M. Homes lascia galleggiare, non senza una certa classe, quella frase sibillina in cui c’è già tutto In un paese di madri. Per Claire Roth, qualcuno che guarda in avanti e non è prigioniero del proprio passato è già una rarità, se non proprio una fortuna, perché “lo vedeva tutto il giorno che cos’era la memoria per la gente: era il posto in cui si cristallizzavano le brutte sensazioni, i peggiori momenti di una vita, ripassati tante di quelle volte che diventavano lisci e duri come calli o vetri levigati dal mare”. Quando conosce l’insicura e tentennante Jody Goodman, nel rapporto professionale tra analista e paziente si insinua un dubbio che diventa via via una certezza e/o un’ossessione: Claire Roth si convince che Jody Goodman è la figlia che, un quarto di secolo prima, diede in adozione. La figlia che le costò l’allontanamento dalla famiglia, la figlia la cui assenza le insegnò a diventare ciò che è diventata, la figlia che le manca. La suggestione è troppo forte: Claire Roth (ribadire i cognomi in questa storia non è un vezzo, ma un modo per ribadire con precisione ruoli e distanze) si lascia trasportare dal desiderio, allo stesso tempo logico e assurdo, di ricollocare le sue scelte, di ritrovare un tempo perduto ed è l’anfitrione di una galleria di personaggi ipocondriaci, ipersensibili e confusi a cui l’analisi psicologica è appena appena sufficiente a disegnare i contorni della loro precaria percezione della realtà. A. M. Homes torna ancora su un tema autobiografico, quello dell’adozione, ed è innegabile che In un paese di madri sia ben architettato e abbia momenti di grande lirismo. Senza dubbio A. M. Homes è una scrittrice di talento, capace di rendere vivi i tormenti dei suoi personaggi e di trasmettere al lettore, attraverso le loro gesta, la sensazione di disorientamento, di fatica, di vuoto che li distingue. Va detto però che l’ambizione si contorce alla ricerca di una soluzione che il finale non porta. Tutta la costruzione della prima parte, la migliore, e i primi passaggi del terzo libro portano all’idea di un dramma con una svolta clamorosa e le aspettative sono tante, così come è alto il livello della suspense. Molte vengono rispettate, altre si sfilacciano nelle eccessive contorsioni psicologiche dei personaggi, da una parte, e in repentine semplificazioni dei loro caratteri (certi dialoghi piuttosto schematici sono il limite più evidente). Alla fine il lettore non vuole sapere soltanto se l’ossessione di Claire Roth corrisponde alla verità: A. M. Homes illumina bene l’aspetto istintivo e radicale dell’essere o non essere madre, ma proprio sul piano narrativo lascia così, in sospeso, la differenza e chiuso In un paese di madri non si capisce se è finito oppure no.

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