venerdì 30 marzo 2012

Charles Bukowski

Invitato dai suoi editori francesi e tedeschi, Charles Bukowski trasforma le sue avventure in Europa in un tour de force in cui sfoggiare le note caratteristiche della sua identità. Con molta sincerità, dovendo affrontare dozzine di interviste, risponde con un vademecum ideale, n riassunto delle favorite thing per cui vale la pena di vivere, secondo il suo modesto parere: “Non volevo essere perdonato o accettato o trovato, volevo qualcosa meno di questo, qualcosa che non fosse troppo: una donna di media bellezza di spirito e di corpo, un’automobile, un posto dove stare, qualcosa da mangiare e non troppi mal di denti o gomme a terra, nessuna lunga malattia prima di morire; anche una televisione con cattivi programmi sarebbe andata bene, e un cane sarebbe stato carino, e pochissimi buoni amici e un buon andamento dell’intestino e abbastanza da bere per riempire lo spazio fino alla morte di cui (per un codardo) avevo pochissima paura”. A ben guardare la lista dei suoi desideri non è complicata: ai suoi editori chiede soltanto qualche bottiglia di vino, ma se in America il buon vecchio Hank è uno dei tanti, in Europa viene trattato come una rock’n’roll star e spedito nel posto peggiore di tutti, ovvero in un talk show televisivo, dove è comunque capace di ubriacarsi e nello stesso di scatenare una rissa (che poi è il minimo, in quei posti lì). I suoi lettori lo venerano, ma Bukowski non è mai stato uno in cerca di gratificazioni, e tollera appena gli incontri pubblici, dove si presenta, magari fedele al personaggio, con regolare sigaretta e bottiglia di vino, rispondendo alle curiosità in mondo sempre più surreale. Finchè, straniero in terra straniera, non decide di rispondersi da solo, senza nemmeno aspettare le domande: “No, non ho idea del perché sono uno scrittore. No, le mie opere non hanno un significato particolare che io ne sappia. Céline? Sì certo. Perché no? Mi piacciono le donne? Be’, in linea di massima preferisco scoparle che viverci insieme. Cos’è importante? Il buon vino, il buon funzionamento dell’intestino ed essere capaci di dormire fino a tardi la mattina”. Il bis nel riferimento ai bisogni corporali non deve essere casuale: la “merda per sopravvivere”, come la chiama Bukowski, è dura da mandare giù e le cortesie dei suoi ospiti che lo portano a visitare le bellezze europee sono giusto un palliativo. In trasferta Bukowski è più Bukowski che mai e Shakespeare non l’avrebbe mai fatto è un diario di viaggio stralunato e inaffidabile perché estirpare Bukowski dal suo habitat naturale è peggio che liberare un leone in una città e, ça va sans dire, non ci vuole molto perché ne abbia abbastanza degli editori (francesi e tedeschi), dei musei, degli incontri, degli scontri. Il suo sfogo è lapidario (“Qualunque cazzo di scrittore fossi, non mi ero curato di scrivere il nome dei posti e delle città, quello che avevo visto, il tempo che faceva e i grandi sentimenti. Ormai tutto questo non era che spazzatura”) e la conclusione inevitabile e inimitabile: “Ho bisogno di bere qualcosa e di cambiare geografia”. Ne abbiamo bisogno tutti.

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