giovedì 13 ottobre 2011

Chuck Kinder

Eccessivo, generoso nello scoprirsi senza esitazioni, Chuck Kinder appartiene alla categoria di quei narratori che fuggono ogni definizione, outsider per scelta e per natura le cui vite collimano con quelle dei loro personaggi, “sopravvissuti in fuga che vivono in una sorta di indefinito assedio onirico”. Il suo vagabondare con L’ultimo danzatore di montagna conosciuto anche come Jessico White all’inseguimento delle “le vite segrete di Elvis” gli permette di snocciolare una storia “all american” che serpeggia attraverso i territori più ostici dell’unione svelando molto di quel “white trash” che è uno dei colori meno conosciuti della babele americana. Lo fa con ironia, lasciando scorrere un nome dopo l’altro in modo caotico e disordinato. Jack Kerouac e Jerry Lee Lewis, James Dickey e John Sayles e Willie Nelson, Wes Craven e Mark Twain e Flannery O’Connor: le disgressioni sono continue, anche se almeno due punti di riferimento sono saldi e costanti per tutto L’ultimo danzatore di montagna. Il primo è Hank Williams, eroe maledetto ed epigone del “white trash” che nel romanzo di Chuck Kinder è una voce che appare e scompare dalla radio, come se a intervalli regolari dovesse indirizzare il viaggio e, forse anche il senso racconto. Hank Williams gli serve a restare ancorato alla terra e alla sua missione perché Chuck Kinder è uno scrittore a tutto tondo, uno storyteller con la vocazione per l’iperbole, capace di lasciarsi trascinare dai momentanei flussi di coscienza: “Tutto è possibile, almeno una volta, perché il prezzo da pagare per essere disposti a rischiare tutto, compresa la vita, è alto, ma che me ne importava, immerso com’ero nella dolce inebriante anarchia della giovinezza, nella ricerca dell’amore e della leggenda? Un’altra cosa intuii, in quel momento in cui mi sentivo come se fossi insieme alla fine e sulla soglia di tutto. Che quel momento magicamente carico di aspettative era probabilmente il punto più alto della mia vita”. L’altro snodo fondamentale per L’ultimo danzatore di montagna è naturalmente Elvis, un’icona che ha prodotto una quantità infinita di sogni: come direbbe Jessico White “se osi vivere una vita pericolosa e leggendaria allora tutto è possibile”. Si tratta di due fantasmi, comunque, per cui la storia scorre vorticosa, rigogliosa, senza soluzione di continuità e avvolta nel mistero di una fede tribale e pagana. Non essendoci una vera e propria trama, se non le avventure picaresche con Jessico White,  alla fine la ricerca del tempo perduto di Chuck Kinder si rivela in un’epifania che da sola spiega il senso di tutti i rock’n’roll dream: “Ed ecco che mi sentii attraversato da una sensazione di benessere, un senso di antica forza e determinazione, insieme a un senso inesprimibile, dolce aspettativa, e di felicità, una strana e misteriosa felicità, e per qualche breve istante la vita mi sembrò incantata, miracolosa, intrisa di intensi significati. Per pochi istanti mi sentii come il giovane, bellissimo Elvis sul tetto del mondo”. Trascinante.

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