giovedì 20 ottobre 2011

Jay McInerney

C’è un personaggio, quello che poi è L’ultimo dei Savage, al centro del romanzo di Jay McInerney ed è proprio Will Savage: figlio della borghesia afroamericana crede in modo fermo e convinto “nei propri entusiasmi, a dispetto della loro totale assurdità”. La sua esuberante voglia di essere protagonista lo porta a a viaggiare sempre in direzioni trasversali, e non solo in senso metaforico perché “l’ebbrezza elimina le distanze tra noi e i corpi celesti”. Da Memphis, Tennessee, una città che è già un emblema, Will Savage aveva tutta l’intenzione di liberare il mondo (“nella sua analisi la musica diventava parte di un più vasto movimento di liberazione personale e sociale”) anche se come notava un altro personaggio, Taleesha, non ha mai deciso se fare il predicatore, il politico o la rock’n’roll star. Nell’indecisione, siamo pur sempre a cavallo dei fantasmagorici sixties, fonda una casa discografica dove mette sotto contratto tutti, bianchi e neri, anche se poi, con il passare del tempo, confessa “non ricordo il titolo della canzone in voga quell’anno, ma posso affermare con sicurezza che la parola hit era paranoia, l’oscuro mantra della cultura psichedelica”. La storia dell’ultimo dei Savage esiste perché racconta un’amicizia che, in nome della musica, annulla le distanze, trasforma le vite, riempie le pagine del romanzo di Jay McInerney di una generosa e genuina voglia di prendere in mano “quel che rimane di un’America da rifare”. E’ l’amicizia tra Will (nero) e Pat (bianco) che deve subire le ingiurie e le ingiustizie del tempo perché “I giorni passano come i giornali, le foglie o la neve” e “ci sono anni intermedi durante i quali può sembrare che il tempo si sia fermato, anche se ci trascina via implacabile. Poi un bel giorno, l’orologio segreto delle nostre vite si mette a suonare, e il bel tempo riprende a correre”. E’ credibile che si cominci da Memphis, dal blues (“Questa è la forma d’arte più pura che questo cazzo di paese abbia mai prodotto, amico. Senti qua. Sembra un distillato di sofferenza e di desiderio di libertà. Non per niente, è stata inventata dai discendenti degli schiavi”), dal rhythm and blues e dal rock’n’roll: in modi e in tonalità diverse trasformano le pulsazioni delle nostre vite in codici in cui riconoscerci perché “i nostri desideri sono insaziabili e infiniti; solo riuscendo a dominarli, ci guadagniamo il diritto alla felicità. O, se non proprio alla felicità, almeno alla pace, perché in fondo la ricerca della felicità mi sembra un credo troppo crudele e vano, un inganno atroce perpretato contro l’inesperienza della società civile”. L’ultimo dei Savage esprime con una sua compiutezza il legame di amicizia che si snoda e poi s’inchioda (in una grigia New York) a quella che in molti si ostinano a chiamare normalità, mentre Will insegue ancora le sue chimere e Pat, chissà, lo guarda da lontano. “C’è come un disegno in questa storia, se uno ha voglia di notarlo”: anche se il blues non è quello originale (del resto lo ammettono anche gli Stones), a Jay McInerney va il merito (indiscutibile) di averci provato. 

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