giovedì 26 maggio 2011

Malcolm Lowry

Se c’è più di un contatto con Sotto il vulcano è perché l’elemento autobiografico è sempre stato il motivo di fondo della scrittura di Malcolm Lowry. Lo stesso viaggio messicano che si svela in Buio come la tomba dove giace il mio amico è frutto di un’esperienza di vita vissuta e anche dell’idea stessa, geniale o stravagante a seconda dei punti di vista, di far confluire in un solo libro, “il vero libro. Già, è come se tutto ciò che noi facciamo ne sia partre”. L’alter ego si chiama Sigbjørn Wilderness e condivide con il suo autore la nebbia alcolica in forma di mescal, tequila e whisky con cui rende infernale la sua discesa negli inferi. Sono molti i nodi che legano Sigbjørn Wilderness e l’amico che ormai giace oltre il confine, ma la percezione è vaga, involuta, indefinita: “Strane cose gli erano successe in quegli anni, e con tale frequenza da dar l’impressione che una forza sconosciuta cercasse di inculcargli nella mente qualcosa di importante. Restava però il fatto che qualcosa di impercettebile quasi li aveva cambiati entrambi”. Mentre attraversa Cuernavaca, una città “fatta di notte ma non di sonno” e Villahermosa e Oaxaca seguendo quel “destino assordante, in continuo movimento e rinnovamento, in sfida al tempo” che già annunciava nel memorabile incipit, Sigbjørn Wilderness si porta dietro la sua sconfitta, il suo romanzo incompleto e respinto, La valle nell’ombra della morte, i suoi demoni. Il bagaglio di un desperado. Lo stesso Malcolm Lowry lo presentava così in una lettera al suo editore del 1953: “Wilderness non è uno scrittore, almeno non nel senso in cui comunemente si intende un romanziere oppure un autore di romanzo. Lui, semplicemente, non sa che cosa è. E’ una specie di uomo del sottosuolo”. Sembra di intravedere un riflesso nello specchio: Buio come la tomba dove giace il mio amico dove appartenere, come Sotto il vulcano che ne era il capitolo centrale fondamentale, a quell’unico libro che Malcolm Lowry aveva ideato, Il viaggio che non ha fine, e invece uscì soltanto postumo, nel 1968. “Troppi giorni, troppa luce”, ma forse anche troppe notti e troppo buio avevano condannato Malcolm Lowry e insieme Sigbjørn Wilderness a essere dimenticati nelle loro dannazioni, ma poi proprio nel cuore di Buio come la tomba dove giace il mio amico Sigbjørn Wilderness ricorda tutto “o quasi tutto. La debolezza e il distacco dalla realtà sono le cose peggiori; la vergogna lo investì con grandi ondate fredde e incalzanti. Come poteva essere precipitato tanto in basso, essere diventato il proprio personaggio”, e l’interrogativo non ha nemmeno bisogno del punto di domanda. Il folle sovrapporsi tra i due, Sigbjørn Wilderness e Malcolm Lowry, è il vortice da cui si dipanano le onde caustiche e caotiche di Buio come la tomba dove giace il mio amico almeno fino a quando non scelgono una sorta di resa, si siedono e in attesa di una seconda birra attendono l’arrivo del destino. Una ballata convulsa, maledetta e straordinaria nella sua amarissima inquietudine.

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