lunedì 23 maggio 2011

Jess Mowry

Nelle strade di Oakland, California la gang è tutto: vita, morte, famiglia, opportunità (spesso l’unica). Quando le dinamiche, regolate dai rigidi codici che s’impongono in lotte senza quartiere, vengono alterate le ansie si moltiplicano perché “è sempre così: la paura di ciò che succede ti fa vivere nel terrore di ciò che potrebbe succedere”. Jess Mowry conosce abbastanza bene le backstreets per lasciarsi ingannare e in Duri a morire concentra la cronaca di uno scontro dagli effetti dirompenti: per difendere il proprio quarto di territorio, la gang degli Amici (si chiama proprio così) deve fronteggiare uno spacciatore convinto di poterseli bere su due piedi. La loro filosofia è spicciola e convincente: “Sì, il mondo ci prova sempre a tenerti sotto, lo sanno anche i sassi, ma questo non vuol dire che tu devi mangiar merda solo perché te la mettono davanti al naso”, ma nella loro guerra di periferia trovano un ostacolo impensabile e ingombrante. Il gorilla dello spacciatore invadente è Ty, un tempo uno di loro, uno della gang. La questione non si può risolvere pensando soltanto a un diverso calibro delle pistole ed è in quel momento che gli Amici si ritrovano prigionieri del proprio mondo, a partire dalle parole e dal loro uso perché “Forse quei rap dovevano far capire al mondo com’erano incazzati i negri, ma dopo aver gridato diecimila volte di seguito a tutti di andare affanculo, comprese le loro madri, i loro cani e i loro criceti, sembravano semplicemente stupidi, come un bambino che ha imparato una parolaccia e che la ripete a chiunque per vedere la reazione della gente”. Il tono è questo: uno slang duro, grezzo, aspro e in debito con Chester Himes, ma del resto non si può rendere con raffinatezza quello che succede nei ghetti e nelle strade, dove ogni gang ha il suo vocabolario. Anche nella sua limitata percezione linguistica, Duri a morire riesce a dare una dimensione dell’acuta insofferenza, del disagio e della desolazione in cui ci si dibatte nei ghetti, immersi in un humus di quotidiana violenza, che si autoalimenta nell’indifferenza delle istituzioni. La condizione degli afroamericani è un limite fino a un certo punto perché come Jess Mowry fa dire a uno dei protagonisti: “Di’ quel che vuoi, ma secondo me nessuno, di qualunque colore abbia la pelle, può essere felice in qualche posto se non è felice ovunque”. Quello che convince in Duri a morire è la sua distanza dai luoghi comuni e il coraggio di svelare quanto i ghetti siano anche causa ed effetto di un’autoindulgenza che ha il suo peso. Come si sente dire ancora in Duri a morire: “Se quei rap volevano dire che i negri sono grandi e grossi e che sanno fottere e fare a cazzotti, allora i negri dovevano imparare dai vietnamiti che, pur essendo piccoli e pacifici, avevano vinto la guerra e, a giudicare dal numero dei figli, erano fortissimi a scopare; non solo, ma sapevano anche amarsi tra loro, oltre a servire un’ottima carne alla griglia”. Magari Jess Mowry la mette giù nuda e crudo, ma di ragioni ne ha in abbondanza. 

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