giovedì 8 aprile 2021

Amity Gaige

Una barca a vela, un sogno che prende tutto, e che diventa una destinazione, ancora prima di partire. Michael è risoluto nel voler offrire alla sua famiglia l’occasione di mollare il tedio suburbano del Connecticut, e lui è il primo a voler provare l’ebbrezza di un anno di tregua dalla vita di travet delle assicurazioni, e come non notare il riferimento alla professione di Wallace Stevens. La poesia è la stella polare della moglie Juliet, che è perseguitata da un fantasma dell’infanzia e soffre di depressione, condizione che la porta a trovare più di un’affinità con Anne Sexton, a cui da tempo si sta dedicando, salvo badare ai figli Sybil e George. E così il bagaglio è già ingombrante alla partenza. La geografia che attraversa i Caraibi è quel “troppo nulla” tra la “dorsale di monti e il vago mare in cui l’esodo perso delle canoe affondò senza traccia”, come la descrive il miglior anfitrione possibile, Derek Walcott, e il viaggio è double face: si passa dal paradiso alla tempesta, dal coraggio alla disperazione, dalla bonaccia alla burrasca. Michael ha impegnato tutto se stesso, e le proprie risorse, nell’impresa, ed è convinto che sia soltanto l’inizio di una svolta più ampia. Juliet l’ha assecondato, tra mille titubanze e altrettanti dubbi, considerando l’ipotesi di uno sbaglio, anche se nel memorabile incipit, La sposa sul mare si premura di smentirlo dato che “un errore ha le sue radici sia nel tempo siano nello spazio: nel modo di ragionare di una persona e nel luogo in cui si trova. L’errore si situa precisamente nel punto di intersezione fra queste due dimensioni, che sono, in termini nautici, le sue coordinate”. La trama in sé è spietata, e lo si intuisce fin dai soggetti che La sposa del mare lascia affiorare, senza falsi pudori. Impossibile non tornare ai capisaldi inamovibili del canone americano secondo Harold Bloom: mare, madre, notte, morte, però distribuiti da Amity Gaige in un fitto arcipelago di storie. Quelle parole ritornano con la stessa frequenza dei punti cardinali nella navigazione e l’alternarsi delle voci di Juliet e di Michael ha un effetto ipnotico. È vero che “al mare non importa chi sei”, ma l’oceano tanto li unisce quanto li divide. Per Michael “vivere con una persona depressa è difficile. È come essere sposati con la marea”. Juliet sa che “nessuno può mantenere una promessa, perché nessuno continua a essere la stessa persona per un tempo sufficientemente lungo”. Nel frattempo, il glossario della vela e della navigazione irrompe a più riprese e la metafora marinaresca prende il sopravvento. Michael è convinto che “a volte lottiamo con tutte le nostre forze contro la corrente ma ci muoviamo appena. Altre volte non facciamo nessuna fatica, scivoliamo sul pelo dell’acqua come una foglia”. A Juliet resta l’espressione palese di un rimpianto: “Se fossimo vissuti con una mente marina, avremmo potuto avere un matrimonio marino. E avremmo potuto amarci in modo diverso. Ovvero, al di là del meritarcelo”. Fin dalle prime battute è evidente che qualcosa pesa sulla coppia: “le costruzioni sul cuore” sono ostacoli insormontabili e le domande di Michael e Juliet sono allarmi di un naufragio imminente. La terraferma è molto lontana e, sì, sono “sulla stessa barca”, ma ci sono distanze che non si possono misurare. E non è finita lì, anzi. Amity Gaige ha scritto un romanzo claustrofobico e liberatorio, concavo e convesso nello stesso tempo, che pone il lettore davanti al mare aperto e lo attira, con un’attrazione magnetica, nel gorgo di Juliet e Michael. La sposa sul mare è animato da una tensione indefinibile che non molla nemmeno nelle ultime pagine perché, in effetti, non finisce. Si spegne in un’appendice schizzata dall’intrusione di altre voci che forse sono soltanto echi che rimbalzano tra le barriere coralline, e l’istinto è di rileggerlo subito. Qualcosa potrebbe essersi perso nell’odissea subtropicale di Juliet (lei e la barca che porta il suo nome): la saggezza di un ospite, la gioia di un’acrobazia, il coraggio nelle intemperie, l’interpretazione della giungla, e quelle risposte che fluttuano ancora tra le onde, inafferrabili.

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