martedì 7 gennaio 2020

Laura Valeri

Un’isola rimane sempre un ecosistema particolare, e non soltanto per le stringenti coordinate biologiche. È un luogo estremo, dove la vita si spinge ai limiti, che sono tutto e niente e comunque impongono un modus vivendi singolare, come aveva ben compreso T. C. Boyle in Gli amici degli animali. All’opposto di quella cupa e complessa visione, l’italoamericana Laura Valeri con L’isola del silenzio sceglie un tono molto più leggero, un po’ diario di viaggio, un po’ favola moraleggiante, per raccontare la sua trasferta a Dog Island, una striscia di terra di fronte alla costa della Florida. All’origine della partenza, con il compagno Joel, fotografo, le aspettative sono piuttosto prosaiche, come ammette la stessa Laura Valeri: “Avevamo un gran desiderio di vedere se, al di là della baia, poteva aspettarci un futuro semplice e luminoso come uno spot della birra Corona”. L’opzione resta valida anche quando sbarcano sull’isola che pur non essendo lontana dalle coste americane è uno spazio selvatico, con poche tracce di civiltà e quasi senza connessioni digitali. La prima impressione riportata di Dog Island è quella di “un sogno pre-undici settembre, un luogo in cui la gente delusa o tradita dalla corsa al successo poteva avere l’opportunità di recuperare, se non la vita cui aveva rinunciato in cambio di straordinari non pagati e inutili lauree specialistiche, almeno un po’ di quiete per riflettere in un posto che era uno spettacolo per gli occhi”. L’idea di vivere su un’isola, accompagnati dalle canzoni di Van Morrison (Moondance) o Neil Young (Harvest Moon), dall’incantesimo dei tramonti e del mare, dal silenzio, cercato con insistenza come quel “canto che alcuni hanno la benedizione di udire”, s’infrange nelle asperità della vita animale, dove ognuno è il cibo dell’altro, nella pochezza della civiltà umana che semina rifiuti e rovine, e nella furia degli uragani che hanno lasciato ferite profonde lungo tutta la costa. Come direbbe un grande osservatore, Aldo Leopold, su Dog Island “c’è tempo: non solo per vedere chi ha fatto cosa, ma anche per meditare sul perché”. Laura Valeri comincia quindi una spicciola cernita tra conchiglie e pellicani, tempeste e spazzatura, scegliendo il mare e nello stesso tempo fuggendolo perché “poi le cose cambiano. Poi desideriamo solo tornare a casa, in un luogo che il tempo ci ha rubato”. Nella rarefazione di contatti e diversivi, L’isola del silenzio si rivela un crocevia di moderne contraddizioni, un’ultima spiaggia su cui riflettere, senza nascondersi. Senza dubbio il posto è adatto e in questo aveva ragioni da vendere Judith Schalansky in Atlante delle isole remote quando scriveva: “E tuttavia sono proprio gli avvenimenti terribili a possedere il più grande potenziale narrativo e le isole sono il luogo perfetto dove ambientarli. Mentre l’assurdità della realtà si disperde nella vastità dei grandi continenti e viene così relativizzata, sull’isola essa è evidente. L’isola è uno spazio teatrale: tutto quello che accade qui, si concentra quasi inevitabilmente in storie, drammi da camera, diventa materia letteraria. È tipico di questi racconti che verità e fantasia non siano più separabili: la realtà diventa finzione e la finzione si realizza”. A quel punto, e L’isola del silenzio ci arriva con una prosa che soltanto a una lettura superficiale può apparire naïf, il viaggio su Dog Island si mostra in tutta la sua asprezza, tanto è vero che Laura Valeri ammette, senza alcuna esitazione: “Eravamo venuti qui perché la prospettiva di isolarci sembrava romantica. Ora sembrava solo spietata”. L’isola del silenzio si svela allora come un piccolo microcosmo in cui avventurarsi tenendo conto della possibilità di perdersi e, ancora di più, di ritrovarsi.

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