lunedì 7 gennaio 2019

Richard Ford

L’estrema fortuna è esplicito e diretto a partire dall’incipit, che anticipa e riassume il suo svolgimento: “Quinn sentiva di aver bisogno di un colpo di fortuna. Rae sarebbe arrivata da Città del Messico nel pomeriggio e, se piazzavano bene i soldi, Sonny sarebbe uscito dalla prisión tre giorni dopo e si sarebbe tolto dalle scatole. La fortuna, pensò Quinn, ha sempre avuto un debole per l’efficienza. Lo diceva pure un proverbio persiano. E da quando era arrivato ad Oaxaca, era stato efficiente fin nei più miseri dettagli. Anzi, efficiente era la sola cosa che era riuscito ad essere. L’unico punto di cui non poteva esser sicuro, e che lo impensieriva, era se l’aver fortuna faceva ancora parte della sua personalità”. Protagonista combattuto e pensieroso, Harry Quinn è incastrato tra Sonny, che è stato arrestato per traffico di cocaina e Carlos Bernhardt, un ambiguo avvocato messicano, e Rae, ma sa che “in un modo o nell’altro, in tutte le situazioni ci si caccia sempre da soli e, alla fin fine, è da soli che bisogna scontarne le conseguenze”. Quinn fa fatica a “tenersi al corrente con la propria vita”, è un reduce del Vietnam, in un paese straniero dove “non si ha un quadro di riferimento che permetta di farsi la giusta immagine mentale”, gli dice un ragazza italiana che non è italiana, ed è travolto dai ricordi, che compaiono in repentini flashback . L’arrivo di Rae funziona da detonatore e imprime un’ulteriore sterzata a L’estrema fortuna che si evolve in un noir sui generis, mentre Quinn si convince che “la felicità crea un sacco di problemi, non ultimo dei quali il dover essere in grado di sopportare d’esser felice”. La recensione di Raymond Carver racconta molto di quello che succede durante L’estrema fortuna: “Alla fine di questo superbo romanzo Quinn e Rae hanno compiuto un giro che li ha riportati al punto di partenza e il cuore rallenta e poi riaccelera nel momento in cui loro spezzano quel cerchio e se ne allontanano. Ma per tutto il romanzo abbiamo assistito a una significativa e secondo me, in fondo, trascendente parabola di condotta umana. Ford è un narratore magistrale. In questa sua visione desolata di perdita assoluta seguita da un salvifica redenzione all’ultimo minuto, L’ultima fortuna appartiene alla stessa categoria di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry e di Il potere e la gloria di Graham Greene”. Sì, l’atmosfera e la luce sono quelle giuste, ma qualcosa non è a fuoco. Richard Ford si avvicina alla perfezione quando deve affrontare gli snodi esistenziali di Quinn (e, di riflesso, di Rae), ma è come se i contorni della storia fossero insufficienti a contenere il processo di continua introspezione. Quando, nonostante l’ambiente e le circostanze siano parecchio ostili, giunge alla conclusione che “l’amore gli sembrò un posto dove poter stare, un posto in cui non poteva entrare niente che desse fastidio”, Quinn si è lasciato alle spalle una mezza dozzina di cadaveri, ma la missione è ancora incerta e così L’estrema fortuna. La conclusione resta in sospeso su un confine, che non è (soltanto) il border, ma una frontiera tra l’assenza di trattativa dell’azione in sé e, al contrario, l’infinito patteggiare della riflessione e dell’osservazione, che come sappiamo, diventeranno poi gli elementi portanti della scrittura di Richard Ford.

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