giovedì 2 marzo 2017

T. C. Boyle

L’incipit funziona da detonatore: “Cercò in seguito di ridurre l’episodio a un’astrazione, a un incidente in un mondo d’incidenti, a uno scontro di forze contrapposte, il paraurti della sua macchina e il corpo fragile, curvo, annaspante di un ometto con la pelle scura e lo sguardo folle, ma ci riuscì solo fino a un certo punto”. L’episodio mette in collegamento due famiglie che abitano agli estremi opposti del Topanga Canyon, nell’habitat indefinibile della “città di quarzo” alias Los Angeles. Cándido e América vivono accampati ai bordi delle strade dove sono arrivati per “trovare qualcosa” e si ritrovano con le macchine che strappano l’aria dai polmoni “e si lasciavano dietro un fetore di gas. I pneumatici sibilavano. Le facce guardavano impassibili”. Aspettano un figlio in un rifugio improvvisato, Cándido lavora come può, quando può, per pochi dollari, ed entrambi sono costretti a subire ogni genere di angheria: sono immigrati e clandestini, un duplice peccato mortale che li costringe a una vita pericolosa, senza diritti, senza speranze, al punto che América comincia a sognare di tornare a casa, tra “gente come loro, di Teploztlán o di Cuernavaca, mettendo insieme le risorse, vivendo come una grande famiglia. E, per quanto piccola, per quanto sporca, con topi e scarafaggi e sparatorie sotto le finestre, sarebbe stata sicuramente preferibile a quel posto”. Delaney e Kyra Mossbacher (e il figlio Jordan) vivono dall’altra parte del canyon, in un’area chiamata Arroyo Blanco Estates. Lei è un’agente immobiliare, adora le case vuote. Delaney scrive per una rivista di ecologia che, per contrasto, si chiama Wide Open Spaces e in cui ricorda che “In America, certo, si stava tranquilli, ma era folle pensare di poter ignorare il resto del mondo, il mondo della fame e della perdita e della costante inesorabile degradazione dell’ambiente. Cinque miliardi e mezzo di persone che divoravano le risorse del pianeta come cavallette, e solo settantatré condor della California sopravvissuti in tutto l’universo”. Dall’altra parte, in fondo alla collina, il lusso (quando va bene) sono le uova in tutte le salse, “huevos con chorizo, huevos rancheros, huevos hervidos con pan tostado”. I Mossbacher mangiano fibre cereali e vitamine a colazione, fanno barbecue con kebab di tofu, un modo sarcastico di T. C. Boyle per ricordare un’ipotesi cosmopolita ridotta a risolvere “la necessità e le esigenze e le piccole irritazioni del quotidiano” perché “era questo il sistema americano. Compra qualcosa. Sentiti bene”, ma l’impalcatura sta scricchiolando. Sì, l’immigrazione è un’ondata che suscita paura e T. C. Boyle, già vent’anni fa, non temeva di far confessare a uno dei protagonisti che l’America “è una società rabbiosa e frammentata, e non parlo solo dei nostri connazionali con soldi o senza soldi, ma dei torrenti di umanità che affluiscono dalla Cina, dal Bangladesh, dalla Colombia, scalzi, senza un mestiere e senza niente da mangiare. Vogliono quello che hai tu, amico, mio, e credi che verranno a bussare alla tua porta per chiedertelo con gentilezza?” La domanda non è retorica. I proprietari della Arroyo Blanco Estate stanno decidendo di costruire una barriera che li difenda non solo dal flusso degli indigenti, ma anche dai pericoli naturali, a cominciare dai coyote che, negli ambienti urbanizzati, trovano spazi e prede in quantità. Il romanzo di T. C. Boyle spiega alla perfezione le distanze e le differenze che definiscono le frontiere, e non soltanto il border tracciato tra Stati Uniti e Messico. Allora come oggi, nella fiction come nella realtà, l’idea che un muro possa essere una soluzione non è “offensiva” come dice Delaney, o antieconomica. E’ soltanto tardiva, quindi fuori luogo, perché proprio come succede in América, invece di evitare il conflitto, lo esalta. Attualissimo.

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