mercoledì 22 giugno 2016

Flannery O'Connor

La calligrafia è nitida, uniforme e lineare, almeno quanto ricco di dubbi e paradossi è il contenuto del Diario di preghiera. Un piccolo taccuino che funziona come una carta d’identità perché Flannery O’Connor lo riempie di appunti mentre sta scrivendo il suo romanzo d’esordio, tra il 1946 e il 1947, partendo dall’istinto di riscrivere le orazioni, e un po’ anche la dottrina. Il moto è spontaneo e condizionato, alla fonte, dall’ingombrante personalità di Flannery O’Connor: “Non intendo rinnegare le preghiere tradizionali che ho detto per tutta la vita; ma le dico e non le sento. La mia attenzione è sempre molto fuggevole. In questo modo sono attenta in ogni istante”. Il rapporto con la preghiera si scioglie ben presto nel confronto con la scrittura e di conseguenza con se stessa: “In qualche momento insulso quando magari sto pensando alla cera per pavimenti o alle uova di piccione, l’inizio di una bella preghiera può salire dal mio subconscio e portarmi a scrivere qualcosa di elevato. Non sono una filosofa altrimenti queste cose le potrei capire”. Cerca un aiuto concreto nelle letture di Kafka, Coleridge, Bernanos, Rosseau, Freud, Proust, Lawrence e Bloy (ce n’è abbastanza da studiare tutta una vita) e se arriva a una conclusione è che “La speranza, tuttavia, deve essere qualcosa di diverso dalla fede. Inconsciamente la metto nel comparto della fede. Deve essere qualcosa di positivo che non ho mai provato. Deve essere una forza positiva, altrimenti perché distinguerla dalla fede? Vorrei riuscire a fare ordine, per potermi sentire coerente da un punto di vista spirituale. Non credo di essere io quella in grado di fare ordine. Ma tutte le mie richieste sembrano fondersi in una, quella della grazia, quella grazia soprannaturale capace di realizzare tutto ciò che fa”. E’ il Diario di preghiera di una credente piena di domande, ma le sue incertezze non riguardano la fede, cui dedica un’energia costante (anche con una certa ironia quando scrive: “Se potessimo mappare accuratamente il cielo alcuni dei nostri promettenti scienziati inizierebbero a disegnare progetti per migliorarlo e i borghesi venderebbero guide a 10 centesimi la copia a chi a più di 65 anni”), piuttosto il suo ruolo sul mondo terreno, in particolare la sua vocazione per la scrittura e per l’arte. Essendo molto severa con se stessa, persino scrivere una breve preghiera per Flannery O’Connor è uno splendido tormento perché si trova ad analizzare con grande scrupolo ogni singola parola, ogni motivo per cui dovrebbe inciderla sul suo taccuino. Nonostante tutto, gli sforzi per vivere fino in fondo la fede non sono diversi da quelli per comprendere l’utilità della scrittura: la passione è sanguigna, intensa, reiterata e pagina dopo pagina il piccolo Diario di preghiera si svela così un workbook in cui Flannery O’Connor apre porte e finestre sulle sue insicurezze e, insieme, sulle sue aspirazioni. Il Diario di preghiera è colmo di riflessioni sullo spirito e sulla natura della scrittura, vista in tutta la sua difficoltà, quasi una confessione quando dice: “Quanto è difficile mantenere qualsiasi proposito, qualsiasi atteggiamento verso un’opera, qualsiasi tono, qualsiasi cosa. In questi giorni trovo una certa pace nella mia anima il che è molto bene, non ci indurre in tentazione. Il livello della storia, boh. Lavoro, lavoro, lavoro”. E’ un’altalena di stati d’animo estremi & assoluti, che vanno da considerazioni critiche (“Mediocrità è una parola dura da attribuire a se stessi; eppure mi ci ritrovo a tal punto che è impossibile non attribuirmela, e mi accorgo addirittura mentre lo faccio che sarò vecchia e decrepita prima di accettarla”) a constatazioni rassegnate (“Penso che forse la speranza possa essere capita a fondo soltanto mettendola in contrasto con la disperazione. E io sono troppo pigra per disperarmi”) da plateali invocazioni (“Vorrei tanto riuscire ad avere successo in questo momento riguardo ciò che voglio fare”) a momenti di pura e semplice delusione, in cui la solitudine e l’isolamento sembrano trionfare (“C’è così poca aria nella mia scatola”). Eppure la forza di Flannery O’Connor è tale che anche dopo aver strappato la sua ultima produzione perché “era certo proprio degna di me; ma non degna di quel che dovrei essere” (e la differenza è una preghiera in sé) aspira ancora & sempre a scrivere un romanzo, “un bel romanzo”. Sarà La saggezza nel sangue.

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