martedì 23 febbraio 2016

Rita Indiana

L’apologia dell’adolescenza secondo Rita Indiana hai i contorni di una commedia agrodolce che nel suo perimetro contiene una voce brillante, insolita, frizzante e speziata ma fedele alla dimensione di quel piccolo mondo, che si svolge secondo il principio per cui “la follia è che a te tutto questo sembri normale”. I gatti non hanno nome è rocambolesco, con immagini che rimbalzano già come un film nel raccontare la vita quotidiana della protagonista, che è senza nome come i suoi gatti, è raminga e collima con la scrittura di Rita Indiana perché anche lei cerca le parole giuste, almeno quanto il suo alter ego elenca i nomi per gli animali. Deve crescere, e in fretta, durante l’apprendistato nell’ambulatorio veterinario dello zio, mentre la famiglia combatte una bizzarra battaglia per l’evoluzione della specie. Per Zia Celia, “il mondo è un grande cesso sporco e lei è l’unico straccio con la fibra adatta a pulirlo”. Lo Zio Fin sembra uscire da un racconto García Márquez, visto il ritmo blando delle sue giornate e i misteri che nasconde. Due splendidi esemplari di quelle che Rita Indiana chiama “nevrosi di classe”, con gli animali che sono il riflesso deformato delle disavventure degli esseri umani: abbandono, incuria, disastri, ogni tanto un po’ di quella piccola cosa che è l’amore e poi, come direbbe Derek Walcott, il vero anfitrione dei Caraibi, “il nulla, che sarebbe il mondo rumoroso nella sua mente”. La definizione lirica aiuta a comprendere l’essenzialità dello stile di Rita Indiana che è inafferrabile, sfuggente, con un sacco di spigoli e di curve, a cui manca sempre qualcosa, come succede in tutta la musica caraibica. Una battuta resta in sospeso e se il ritmo ondeggiante di I gatti non hanno nome si allinea alla precedente generazione delle isole, quella di Jamaica Kincaid, Edwige Danticat, Zoé Valdés, nella deriva dei continente americani Rita Indiana si è lasciata convincere da H. G. Wells ad andare oltre: “Immaginate un linguaggio che avete conosciuto preciso e definito, afflosciarsi, farsi gutturale, perdere sostanza e forma, trasformarsi in una semplice sequela di suoni frammentari”. Il suo lessico famigliare diventa così cosmopolita, arguto, tenace, divertente, drammatico e romantico. Impara (un po’) l’italiano leggendo una biografia di Jim Morrison, tiene un diario per conto terzi, tocca e graffia la pervasiva cultura pop, anche soltanto ricordando che “lo speciale dedicato ai Fleetwood Mac che danno alla radio ha già rotto le scatole a tutti”. E’ abbastanza per rappresentare le dimensioni d’interni che racchiudono gli incontri, che hanno sempre la caratteristica principale della casualità, anche se poi si ritrovano annodati in sequenze invisibili o impalpabili, non di meno determinanti. In queste cornici, una volta la sala d’aspetto dell’ambulatorio, una volta la sua stanza, una volta un angolo in giardino, Rita Indiana erutta una metafora dopo l’altra, con una certa allegria, con gli occhi pieni di spontaneo stupore, anche quando si trova “a parlare di politica e di malattie dell’apparato digestivo”. La nota più fresca è proprio quella e Rita Indiana la applica anche nel raccontare la condizione estrema e provvisoria di Radamés, un migrante haitiano, la triste storia di Mauricio, un cane con un occhio solo, o la scoperta di una prima, vera scheggia d’amore. Gli animali e le persone alla fine ci lasciano, come direbbe ancora Derek Walcott, “increduli nell’attesa di essere occupati”, così come I gatti non hanno nome invita a sbarcare in un arcipelago di suggestioni ed effervescente. Non edulcorate, non perfezionate, grezze, genuine, ed è meglio così.

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