sabato 27 febbraio 2016

Don DeLillo

Un libro di domande. Solo un narratore moderno nel suo più ampio della definizione, come è Don DeLillo poteva costruire attorno all’anno vissuto pericolosamente da Jack Gladney, un’architettura narrativa fatta di punti interrogativi. La letteratura, o forse, in modo più esplicito, la fiction di Rumore bianco serve a spiegare che “Cominciamo la vita nel caos, nel balbettio. Poi, a mano a mano che ci eleviamo nel mondo, cerchiamo di elaborare una forma, un progetto. Tutto ciò ha una sua dignità. Tutta la vita è una finzione, uno schema, un diagramma. Uno schema mancato, ma non c’entra. Fingere significa affermare la vita, cercarne una forma e il controllo”. E’ tutto lì, dall’inizio delle lezioni di Jack Gladney che, in un ipotetico campus “in the middle of nowhere”, tiene corsi di nazismo avanzato. La materia è ambigua (mettiamola così) e la provocazione di Don DeLillo ci colpisce e ci impegna a riflettere quando aggiunge che “ciò che riluttiamo a toccare, sembra spesso l’essenza stessa di cui è intessuta la nostra salvezza”. D’altra parte il collega Murray Jay Siskind vorrebbe fondare “un centro di potere fondato su Elvis”, e se qui potremmo essere d’accordo, diventa palese l’idea portante del culto della personalità come tratto distintivo del ventesimo secolo. Con tutti i fronti tecnologici (e invasivi) della modernità, sconvolti dalle progressioni dello stile matematico di Don DeLillo. La presenza della televisione, ovvero della pubblicità, assillante, prepotente, assurda, riassunta così: “Sono giunto a capire che il mezzo televisivo è una forza di fondamentale importanza nella casa tipica americana. Conchiusa in sé, senza tempo, autolimitata, autoreferente. E’ come un mito nato qui nel nostro soggiorno, come una cosa che conosciamo in modo preconscio, quasi in sogno”. L’interpretazione delle reti digitali, persino profetica, perché siamo nel 1984 (che coincidenza, l’anno di Orwell) e Don DeLillo le descrive con un intuito sorprendente: “Il sistema elettronico era invisibile, cosa che lo rendeva ancora più impressionante, assolutamente più inquietante da averci a che fare. Ma eravamo in consonanza, almeno per ora. Le reti, i circuiti, i flussi, le armonie”. Inarrivabile. Quando, a metà romanzo, irrompe “l’evento tossico aereo”, una delle incomprensibili catastrofi della vita moderna, Rumore bianco esplode con un florilegio di immagini, definizioni, raffiche di dubbi, e se non sono domande, sono enigmi impliciti nelle frasi apodittiche di Don DeLillo: “Quando i tempi sono incerti, la gente si sente costretta a mangiare in eccesso”. Nello specifico, il disastro chimico pare piuttosto un riflesso dell’incidente nucleare di Three Mile Island, e cercando di evidenziarlo e delinearlo in tutta la sua complessità, Don DeLillo ricorre anche a un’amara ironia: “Parole, immagini, numeri, fatti, grafici, statistiche, macchioline, onde, particelle, fuscelli. Soltanto le catastrofi attirano la nostra attenzione. Le vogliamo, ne abbiamo bisogno, ne siamo dipendenti. Purché capitino da un’altra parte”. L’effetto principale, comunque, è quello di rivelare che la famiglia di Jack Gladney, di Babette (l’ultima di una serie di mogli) e dei figli è “una fragile unità circondata da fatti ostili”. La paura e la morte, che da quel momento permeano l’atmosfera, spingono Jack Gladney a cercare un rimedio nella forma di un farmaco (e anche qui Rumore bianco apriva una porta sul futuro) che possa limitare l’ansia del salto nel buio. E’ la successiva progressione di Don DeLillo a stupire quando, operando una specie di estrazione della radice quadrata della realtà, scrive che “tutti gli intrighi tendono alla morte. E’ la loro natura. Intrighi politici, terroristici, amorosi, narrativi, intrighi nei giochi infantili. Ogni volta che intrighiamo ci accostiamo alla morte. E’ come un contratto che devono firmare tutti, chi intriga come coloro che sono i bersagli dell’intrigo”. Il Rumore bianco non lascia via di scampo, pare di capire, ma dovesse esserci, la possibilità è soltanto una, “fingere, mirare qualcosa, dare forma a tempo e spazio. E’ così che facciamo progredire l’arte della coscienza umana”, perché “fingere significa vivere”. E questa è letteratura.

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