sabato 23 gennaio 2016

Wallace Terry

Il primo nemico ucciso, il ritorno a casa, le ferite che non si rimarginano, i caduti e gli incubi dei reduci, le assurde condizioni ambientali, tra chi dorme nel fango e chi è di guarnigione all’ambasciata e mangia bistecche tutti i giorni, la necessità di mostrarsi onnipotenti, che è il primo passo per dimenticare ogni parvenza di civiltà o di onore: “erano centinaia di anni che la guerra andava avanti in Vietnam” e se questo vale per tutti, poi Wallace Terry, attraverso la voce in diretta dei protagonisti, senza particolari intermediazioni letterarie, costruisce la solida testimonianza di un conflitto nel conflitto. E’ una storia orale, dove Wallace Terry ha fatto soltanto un po’ di ordine per riuscire a raccogliere una panoramica di memoriali comprensiva di tutti gli ordinamenti militari, dall’esercito ai marines, fino all’aviazione e alla marina. Il tono è sempre informale perché Wallace Terry mantiene la condotta esemplare del corrispondente, che poi è il lavoro che è andato a fare laggiù, ma ciò non gli impedisce di chiarire fin dall’introduzione il suo specifico punto di vista: “Negli ultimi anni di presenza americana in Vietnam, neri e bianchi combatterono per sopravvivere a una guerra che sapevano che non avrebbe potuto essere vinta in senso convenzionale. E, spesso, lottarono gli uni contro gli altri. Il conflitto, che divise l’America come non accadeva ai tempi della guerra civile, si trasformò in un doppio campo di battaglia in cui soldati americani si scontravano contro altri soldati americani”. Le testimonianze, sempre in prima persona, non sono univoche. Il minimo comune denominatore è la discriminazione, la diffidenza, l’ignoranza, la solitudine. Combattono ma vogliono sentire i Temptations, Sam & Dave, le Supremes, Aretha Franklin. Si ritrovano a entrare in bunker su cui sventola la bandiera confederata e condividono la stessa trincea con volti che, a casa, portavano le maschere del Ku Klux Klan. Il vero punto di domanda riguarda tutti, perché al ritorno chi ha dato una o più parti di sé (e non solo in senso metaforico) per la prosopopea di una nazione, si ritrova ancora addosso le stesse contraddizioni, irrisolte. Non soltanto una frattura verticale, ma proprio un’idea in frantumi come commenta Stephen A. Howard: “Il Vietnam ti insegna a essere bugiardo. A essere un ladro. A essere disonesto. Ad andare contro tutto quello che hai imparato. Ti insegna tutto quello che non avevi bisogno di sapere perché vivevi in una menzogna. E la menzogna è che non dovevi essere lì, che quelli non erano affari tuoi, innanzitutto. Che non eri lì per difendere la democrazia. Che non stavi proteggendo il tuo paese. Ed è questo quello che ti logora veramente. Come soldati americani combattenti, ci era stato detto che stavamo combattendo una guerra civilizzata. Non c’è nulla di civilizzato in una guerra”. Non c’è molto da aggiungere e forse è per quello che le frasi sono brevi, troncate ai bordi, taglienti, non edulcorate, perché i Buffalo Soldier parlano con la lingua del ghetto, spesso avvolta in un alone di fatalismo, come quando Reginald “Malik” Edwards racconta che “era come se i marines fossero sempre a caccia di qualcosa che andasse storto. E qualcosa andava sempre storto”. Per gli afroamericani la guerra si rivela ambivalente ed esponenziale, in tutta la sua drastica realtà: sconfitti in battaglia, emarginati a casa. Un lungo e dolente blues.

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