martedì 12 gennaio 2016

Leonard Gardner

La California di Leonard Gardner non è l’El Dorado: il clima è arido, povero, cupo e minaccioso e la boxe è un rimedio, una seconda chance e un’ossessione in tutta la sua magnifica durezza. La teatralità e il significato metaforico della lotta rimangono marginali nella Città amara perché come scriveva Joyce Carol Oates “se la boxe è uno sport, è il più tragico di tutti gli sport perché consuma la maestria di cui fa sfoggio più di qualsiasi altra attività umana, il dramma, nel suo caso, consiste proprio in questo consumare. Esaurirsi nel combattere l’incontro più importante della propria vita significa inevitabilmente iniziare una discesa che la volta successiva potrebbe diventare un tuffo, una caduta repentina nell’abisso”. Con uno stile aspro e asciutto, un concentrato senza una parola in più, a Leonard Gardner non serve un vocabolario particolarmente ricco, per puntare dritto al dettaglio, al centro dell’azione, al movimento stesso, all’intricata natura della boxe. Un modo di mostrarla, più che di spiegarla, un racconto della boxe attraverso la boxe con una sintonia perfetta nei confronti delle attitudini, delle abitudini, delle scommesse, di tutte le storie dentro il ring, ma anche fuori, perché il ring è una forma di recinto che circoscrive lo spazio e il tempo, che non lascia via di scampo, ma il pugilato avviene altrove, dove i protagonisti si devono accontentare di lavori miserevoli, appartamenti spogli, incontri fugaci che svaniscono nella tristezza e nella disperazione. Nella Città amara lo spettacolo è al minimo sindacale, proprio lo stretto necessario, perché per Ruben Luna, Ernie Munger, Billy Tully e, last but not least, Arcadio Lucero, la boxe rappresenta l’idea di successo, la strada verso la felicità, senza che nessuno osi chiedersi a quale prezzo, in fondo. Non sono soltanto il sangue, le ossa rotta, la fatica assurda, il sudore, le commozioni cerebrali, il dolore immane. Nella Città amara il livello delle competizioni è tale che la posta della vittoria non si distingue molto da quella della sconfitta e Leonard Gardner trasmette con minuziosa precisione il travaglio di questi uomini assediati dall’incertezza, predestinati all’errore, alle scelte sbagliate, a perdere ogni occasione dignitosa eppure a continuare a cercare nella boxe una soluzione. Una vocazione autodistruttiva e suicida, che però ha fondamenta molto umane e molto reali ed è ancora Joyce Carol Oates a coglierne gli aspetti più sottili e drammatici: “Non può essere una coincidenza che il romanzo più amato sulla boxe, Città amara di Leonard Gardner, sia un romanzo non tanto sulla boxe quanto sulle strategie dell’autoinganno. Una specie di manuale del fallimento, in cui la boxe rappresenta l’attività naturale di uomini totalmente incapaci di comprendere la vita”.  La sua analisi sembra rfilettere l’eco delle parole con cui, all’inizio di Fiesta, Ernest Hemingway spiegava che a Robert Cohn non importava “niente della boxe, anzi la detestava, ma l’aveva imparata, con fatica e fino in fondo, per reagire a quel senso di inferiorità e insicurezza”. Ci sono uppercut che non si possono schivare e anche le finte e i trucchi più astuti non valgono più nella Città amara, amarissima di Leonard Gardner. 

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