martedì 16 giugno 2015

Phil Klay

L'inoltrarsi della primordiale vocazione per la guerra nella modernità oltre a condurre ad armi più rapide, più strazianti, più incontrollabili, ha prodotto anche maggiori tutele e protocolli più urgenti destinati a salvare le vite dei soldati, o di quello che ne resta. Il paradosso è implicito ed esplicito nei graffianti racconti di Phil Klay ed è che, in realtà, a casa non torna più nessuno. Non ci sono reduci, veterani, o eroi. Solo sopravvissuti. Le “storie di guerra” e le “robe da civile” (per dire quello che succede senza una divisa addosso) sono uno straziante rosario che Phil Klay snocciola con una scrittura schematica, limitata, grezza. Un linguaggio che procede iperrealistico a raffiche di parole, e di acronimi, tutte le sigle di un vocabolario inutile e incomprensibile (tradotte in modo molto opportuno in un apposito glossario) che corrisponde all'anonimato imposto dagli eserciti. Gli episodi sono differenti e rappresentati da brevi fotogrammi, che si inanellano uno nell'altro per piccoli dettagli, agganci e ricordi che sono sempre gli stessi, le esplosioni sulla strada, le sparatorie, l'azione e le ferite, gli amici e le vittime. Le tessere del mosaico si incastrano e raccontano alla perfezione gli effetti delle guerre moderne (in particolare Il denaro come sistema di armamento), anche se di moderno non c'è più nulla e tutto tende a diventare molto primitivo, perché “la percezione è la realtà. In guerra, a volte la cosa più importante non è quello che sta succedendo, ma quello che la gente crede che stia succedendo”. L'errore, più del'orrore: l'Iraq resta un buco nero, un'apoteosi della guerra dove non c'è più distinzione tra militari e civili, carnefici e vittime, alleato e nemico. Fine missione, come l'hanno spiegato la storia e le cronache, non è più sinonimo (se mai lo è stato) di “missione compiuta”, ma soltanto di Un terribile amore per la guerra, proprio come il titolo del saggio in cui James Hillman scriveva: “Se anche queste pagine grondano morte è perché la pagina scritta è il luogo dove la memoria è sottratta al campo di sepoltura e riportata in vita. Poiché i morti sono muti e i reduci ammutoliti”. Fine missione è un libro difficile, duro, doloroso e necessario, con pochi punti di riferimento, nonostante le testimonianze della devastazione delle guerre in Iraq (e in Afghanistan) siano sempre più frequenti e puntuali. Bisogna tornare all'inizio di tutto, al peccato del fallimento originale perché il parente più prossimo per la forma e per il tono di Fine missione, è Nel mosaico del faraone di Tobias Wolff a cui Phil Klay rimanda quando racconta che In Vietnam avevano le puttane, giusto per spiegare che aria tira. Almeno laggiù l'elementare concretezza di una sconfitta conclamata un qualche effetto l'aveva sortito. Una riflessione, una frattura. In Fine missione, Phil Klay è drastico: “Niente storie. Cose. Corpi. Le persone mentono. I ricordi mentono”. Adesso le guerre non finiscono mai, neanche quando si torna a casa tutti interi, salvi (forse), ma non sani, non più umani. 

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