sabato 10 agosto 2013

Dana Spiotta

Le Versioni di me di Dana Spiotta intrecciano tre onde sinuosidali: una storia famigliare tenuta insieme da filamenti invisibili che corrono per la maggior parte attraverso legami digitali; il culto della personalità di Nik Worth; il flusso di coscienza e il rapporto con le distorsioni (televisive) della realtà di Denise. Una miscela dal potenziale esplosivo, in gran parte inespresso. Non c’è dubbio che Dana Spiotta abbia le capacità di inquadrare i personaggi e le loro complesse psicologie: la scrittura compulsiva di Versioni di me ha un gran ritmo e una sua intensità ed è un tratto che non si perde nel corso del romanzo. E’ la storia in sé, la trama, qualche particolare e altrettanti luoghi comuni a sovrapporsi in modo poco armonico, a volte persino cacofonico. Forse è voluto nel confronto con gli eventi storici, per redenre quella sensazione di impotenza e di strazio perché come dice Denise “nessuno ti consola per quel che hai visto al telegiornale”. Rimane molto vaga nel resto compresa l’alternanza di voci e di persone, come se le vicende e i legami della famiglia di Nik Worth siano ancora tutti da scrivere e le convergenze parallele finiscano in un deserto emotivo ben rappresentato dalla voce di Denise: “Io provo pena per tutti quegli adulti compromessi, iniettati di sangue e colpevoli e che poi raccontano la storia ai loro amici, senza esser davvero onesti sul ruolo che ha avuto ciascuno di loro nello sviluppo della vicenda. Sono solo alla fine del primo giorno dell’anno e sono già esaurita e sconfitta”. Fin qui può essere, anche se Versioni di me arranca. La curva più evanescente rimane proprio quella di Nik Worth. “Il seminario dei luoghi comuni” in versione rock’n’roll parte dal cliché del musicista ritirato e incompreso (come tutti), ricalcato su Bucky Wunderlick di Don DeLillo in Great Jones Street a sua volta ricavato dall’enigma irrisolto della personalità di Bob Dylan (con una punta di Leonard Coen). Molto pruriginoso e solleticante, ma ha sempre qualcosa che scivola via in superficie ed è impalpabile come è sfuggente Nik Worth: è tutto fake, miraggio, abbaglio e se fin qui c’è una concorrenza con la realtà dello stardom system e dei fallimenti dell’industria discografica, l’insistenza di Dana Spiotta sulla nota falsa è sospetta e incide in qualche modo sulla natura stessa di Versioni di me. Nik Worth può anche essere una parodia, e ci sta. Bisogna però dire che la padronanza di certi linguaggi, la capacità di cogliere l’atmosfera, l’umore, lo spirito del tempo dipendono anche da piccoli segnali ineluttabili. Per dire: le rock’n’roll band di Nik Worth, i Fakes (un’ossessione) e i Demonics arrivano tra il 1979 e il 1980 a Los Angeles ed è la Los Angeles degli X, e gli X non ci sono. Sarà un caso, ma se, parafrasando Dana Spiotta, non vogliamo considerare il rock’n’roll, “una piccola, esile esperienza che ti costa molto più di quanto non dovrebbe”, non è un dettaglio da poco. E’ come atterrare a Londra nel 1977 e non trovare i Sex Pistols e/o i Clash e persino Nik Worth sa benissimo cosa vuol dire.

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