lunedì 15 luglio 2013

Henry James

La notte del 10 gennaio 1895, l’arcivescovo di Canterbury, Edward White Benson, nella sua residenza di Croydon, racconta una ghost story che Henry James si annota con puntualità sui suoi Taccuini. Trama, ambiente, personaggi sono già delineati in una manciata di righe che conclude così: “E’ tutto vago e incompleto, il quadro, la storia, ma sembra recelare una vena di strano raccapriccio”. Nella decadente tenuta di Bly, in mezzo alla campagna inglese, viene mandata una giovane istitutrice incarica di accudire i piccoli Flora e Miles. La bucolica residenza nasconde i fantasmi della signorina Jessel e del signor Quint che appaiono enigmatici: sono appena ombre dietro una finestra o sulla riva di un lago eppure scatenano un vorticoso maelstrom psicologico. Giro di vite è un micidiale labirinto narrativo, e chissà se è vera la storia dell’arcivescovo, in cui ogni varco si spalanca su un livello più profondo. Henry James lo definiva “un’escursione nel caos pur rimanendo, come Barbablù e Cenerentola, solo un aneddoto, anche se un aneddoto amplificato e altamente accentuato e tornante su se stesso: come, del resto, tornano su se stessi Cenerentola e Barbablù”. Il senso di “un ulteriore giro di vite” è palpabile, pagina dopo pagina, perché sulla residenza di Bly gravano il sospetto, l’angoscia, il dubbio che qualcosa di orrendo sia successo ai due bambini e che non sia ancora finito. Il mistero è proprio in quel Giro di vite impresso alla trama che Henry James ha tessuto con meticolosa genialità: “Rendi la visione generale del male da parte del lettore abbastanza intensa, dissi a me stesso, e questo è già un compito piacevole, e la sua esperienza, la sua fantasia, la sua simpatia (per i bambini) e il suo orrore (dei loro falsi amici) gli forniranno a sufficienza tutti i particolari. Fagli pensare il male, faglielo pensare da sé, e sarai liberato dal peso di deboli specificazioni”. Tenere in considerazione il lettore, come scriveva Henry James nella prefazione di Giro di vite, è già un elemento di rara coerenza a cui fa seguito uno svolgimento in cui lo stile ricerca, con un’ossessiva attenzione, di “rendere denso come una fitta pasta il soggetto della mistificazione della mia giovane america, della mia immaginaria narratrice, e tuttavia mantenerne l’espressione così chiara e fine che ne risultasse bellezza: nessun aspetto della cosa rivive tanto per me quanto quello sforzo”. Ogni dettaglio, ogni singolo gesto, ogni particolari dei racconti che si inanellano l’uno con l’altro, persino “gli oggetti quotidiani della vita”, come li definisce ancora Henry James, tendono ad evocare l’humus da cui gli spettri prendono forma, a partire dalle parole e dai silenzi. Sembra paradossale che la realtà sia il loro habitat ideale e invece ha una sua logica stringente se ci fida di Virginia Woolf quando scrive che i fantasmi “hanno la loro origine in noi” ed è l’autorevole indicazione che porta a comprendere quel senso unico che Giro di vite imbocca dall’incipit fino al finale agghiacciante, emblematico, perfetto.

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