venerdì 6 aprile 2018

Caitlin Doughty

Sul finire del diciannovesimo secolo Paolo Gorini, scriveva nel suo manifesto, La conservazione o la distruzione dei cadaveri umani: “Ai morituri cui ripugnasse il diventar pasto dei vermi ed ai superstiti che desiderassero di non distaccarsi interamente dai loro casi trapassati. Quella necessità che ci porta al fine della vita è generalmente guardata dagli uomini con animo avverso. Ci ripugna il ritornare nel nulla da cui siamo usciti: abbiamo un attaccamento appassionato alla nostra esistenza individuale e questo affetto si estende ben anche alla materia di cui il nostro corpo è costituito ed alle forme entro cui s’era adagiato. Ciò ha fatto che ci dimostrassimo sempre un po’ malcontenti della sorte che la natura ha destinato al nostro povero stato”. Il dilemma dello scienziato di Lodi, antesignano delle tecniche di cremazione e imbalsamazione, è lo stesso che si sviluppa in Fumo negli occhi. All’inizio gli aspetti lugubri e macabri possono apparire come i sintomi di una malcelata e morbosa attrazione o un modo per épater le bourgeois (nel caso ci fosse ancora qualcuno da sconvolgere nell’intervallo tra un’apocalisse di zombie e l’altra). Non si capisce perché un ragazza delle Hawaii, per antonomasia il posto più solare e allegro del mondo, debba occuparsi di un argomento così tetro. La risposta, come spesso succede, è già nella domanda. Fumo negli occhi procede con un andamento ipnotico perché Caitlin Doughty racconta la sua esperienza personale (quasi una vocazione, si direbbe) alternandola a una vasta ricognizione di rituali e tradizioni funerarie da tutto il mondo e da ogni tempo. È un diario sui generis, e insieme un trattato, ma Caitling Doughty sa narrare con verve, ha confidenza con i personaggi e strada facendo l’acquista con la materia, che non è la più semplice da maneggiare, perché è mossa dalla convinzione (corretta) che “l’ignoranza non è una forma di felicità, è solo un tipo di paura più profonda”. Usando la sua esperienza, diretta e personale, per dare forma a un curioso ibrido, a metà strada tra il diario e un trattato, Caitlin Doughty passa in rassegna (quasi) tutti i sistemi per gestire o in qualche modo mitigare gli effetti della caducità del corpo umano. In realtà Fumo negli occhi non è così monotematico come potrebbe sembrare in apparenza. Oltre all’aspetto igienico, Caitlin Doughty intuisce che i rituali delle esequie sono gli involucri per contenere e diffondere le singole storie, che sono tutto ciò che resta dopo l’ultimo passo. Sembrerà paradossale, ma c’è un’idea vitale al fondo di Fumo negli occhi e un serrato confronto con l’umanità, che vuol dire con le condizioni di vita nell’America del ventunesimo secolo perché il primo luogo comune che sfata è che se l’estrema ora è brutalmente democratica e arriva per tutti, non è uguale allo stesso modo, visto che il marketing avanzato è spietato anche nel campo delle onoranze funebri. Le avventure dal crematorio si dipanano ad affrontare temi che ancora oggi sono tabù (il cannibalismo) o celebrazioni incomprensibili secondo gli standard occidentali, così come la bara di James Brown (“Una Batesville Gold Protection con il rivestimento interno verde muschio”, al modico prezzo di venticinquemila dollari) o discreti servizi (in pratica anonimi) on line, arrivando alla conclusione che filosofia, scienza, religione offrono soltanto un catalogo di tentativi. Il senso di tutto questo Fumo negli occhi arriva alla fine, con una passeggiata in un cimitero al chiaro di luna, un’immagine perfetta da Edgar Allan Poe a Stephen King, in cui  Caitlin Doughty si scopre solo “un essere umano: un’altra anima costretta ad affrontare lo strano e oscuro mondo della morte, cercando di svolgere il suo lavoro e di capire che senso avesse”. E questo vale per tutti, non soltanto per i necrofori. Coraggiosa.

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