La lunga notte delle piume bianche è un labirinto in cui è facile perdersi perché nel suo esordio Francisco Goldman assembla una storia attorno a un fantasma, Flor, cambiando repentinamente linguaggio, prospettiva, tempo, paesaggio, stile. A tratti assume le sembianze di un giallo, perché è proprio da un omicidio (quello di Flor, appunto) che parte il tutto. Dall’inizio alla fine, però, è anche una composizione di storie d’amore: vere, presunte o soltanto sognate. Sullo sfondo c’è il Guatemala, che vuol dire anche guerra, squadroni della morte, torture, diritti civili annientati e connessioni più o meno pericolose con gli Stati Uniti. In più non manca un’infarinatura onirica e surreale (figlia della passione di Francisco Golman per Gabriel García Márquez) a legare le varie componenti di La lunga notte delle piume bianche, un romanzo atipico la cui sfrenata ambizione ha più d’una ragione d’essere, e non pochi limiti. Naturalmente, viste le premesse e le dimensioni, non si tratta di una lettura immediata: parafrasando uno dei suoi personaggi “si può incappare in ogni sorta di zone grigie”, ed occorre essere predisposti a seguire sulla fiducia la voce del narratore in tutti i meandri della storia per non restare disorientati. Anche perché Flor, dopo essere stata assassinata, vive una seconda volta nei ricordi e nei dialoghi tra Roger e Moya. Il primo è figlio della famiglia americana (il padre, un ebreo di Boston, la madre, un’aristocratica guatemalteca) presso cui Flor lavorava come cameriera. Il secondo è un giornalista che con lei ha avuto una breve relazione, dopo il suo ritorno negli Stati Uniti, per dirigere un orfanotrofio. Nel tentativo di scoprire chi e perché l’ha uccisa, i due cercano ripetutamente di far combaciare ricordi, opinioni, frammenti di chiacchiere, piccoli dettagli, non senza rischiare in prima persona per aver aver sfiorato qualche delicato e indicibile interesse economico o politico. La storia di Flor e quella del Guatemala, un paese in cui “tutti fanno tutto in segreto”, si sovrappongono e si intrecciano nella scrittura florida e ipersensibile di Francisco Goldman, ma per riuscire a coglierle è necessario sprofondarcisi dentro, d’istinto, perché non c’è altra logica per affrontare il diluvio emotivo, e quasi sempre irrazionale, di La lunga notte delle piume bianche. Anche perché come diceva il Gabo: “le profezie sono cifrate per proteggere se stesse dal fallimento. Non possono correre il rischio di rovinarsi da sole. Se tu credi nelle profezie e ti predicono che quando uscirai da qui, all’una e dieci di notte, ti cadrà una tegola in testa, tu naturalmente non verrai qui, o non uscirai da qui, all’una e dieci di notte, e la profezia pertanto non si compirà mai. Le profezie si decodificano con precisione soltanto dopo che si sono avverate, o meglio dopo che succede quanto presumibilmente doveva accadere”. Questa è la sensibile differenza che incide nell’aggrovigliarsi dei dialoghi tra Roger e Moya: nel tentativo di evocare lo spirito di Flor ne restano incantati e non di meno succede a Francisco Goldman che, con tutta l’esuberanza del debutto, sfoggiando tutto quello che può, si concede alle elucubrazioni dei suoi protagonisti con grande generosità. Fin troppa.
Nessun commento:
Posta un commento