Per Henry James, Daisy Miller era “uno studio”, definizione mutuata dal riassunto della tragedia di “una creatura ignara, allegra, esile e naturale, che viene sacrificata per aver scatenato un putiferio sociale che sembrava avvenire al di là di lei e che sembrava non toccarla da vicino”. Quando Daisy Miller incontra Frederick Forsyth Winterbourne è solo “una graziosa civettuola americana” in vacanza in un’amena località tra le Alpi svizzere. L’acerbo germoglio di un legame viene compresso dalla formalità delle relazioni sociali, che in fondo è la stessa del racconto in sé e ne determina il ritmo compassato, misurato, fin troppo educato nelle fasi iniziali. Una volta trasferiti a Roma i “pellegrini del nuovo mondo” si ritrovano a fronteggiare un’atmosfera meno rigida e più estroversa, che si rivela un terreno fertile per lo spirito intraprendente e allegro di Daisy Miller. Tra le nuove amicizie spicca “Giovannelli con i suoi modi incoerenti e aggraziati”, che, in un crescendo di equivoci, maturerà una frizione con Winterbourne, irrisolta fino al drammatico finale. All’epoca l’interpretazione di Daisy Miller fu contraddittoria, tanto da spingere Henry James a precisare: “La mia singolare creatura era naturalmente pura poesia; e non era mai stata altro; questo è ciò che produce la preziosa immaginazione, seppure in piccola dose”. È utile ricordare, allora, quello che diceva Ford Madox Ford: “Personalmente ritengo che la caratteristica dominante della sua personalità si esprimesse attraverso le sue precauzioni. Non le sue cautele, perché nella vita, come nello scrivere, egli non fu assolutamente cauto. Sia nei libri che nella vita, egli studiava ogni singolo aspetto del fatto che lo occupava con straordinaria minuziosità, la stessa che metteva in ogni frase che pronunciava”. Su questo non c’è dubbio, eppure Daisy Miller, che lasciava “un margine per un piccolo segno a matita”, ha generato gli spazi per confondere la protagonista del racconto con la realtà “american girl”, ma d’altra parte, dice ancora lo stesso Henry James, “queste sono, di fatto, le risorse del buonsenso nell’impresa, sempre folle, del poeta drammatico; il rigore del bisogno artistico di coltivare quasi a ogni costo una varietà di apparenza e sperimentazione, di dissimulare somiglianze, uguaglianze e banalità, attraverso il gioco infinito che reclama una propria vita. Il poeta non ha dinanzi a sé cose distinte quanti sono i lati da cui possono essere avvicinate le masse principali; dopotutto è soltanto un abile assediatore o un furtivo avventuriero della notte che progetta, osserva e gravita intorno a possibili luoghi da penetrare”. Nel suo svolgersi, Daisy Miller mette al centro “la verità più semplice su un’entità umana, una situazione, una relazione, un aspetto della vita, anche minore, che richiede attenzione, si dispiega sempre, intensamente, sempre più intensamente, sotto le mani, per giustificare quella richiesta di attenzione, e si tende sempre verso il sommo fine e lo scopo delle nostre intenzioni o delle loro numerose connessioni; la verità lotta ad ogni passo e sfida il dito ammonitore di qualcuno pur di esprimere se stessa completamente e pienamente. Da ciò deduco che ogni vera arte rappresentativa costituisca un’accettazione controllata e protetta, in realtà un controllo economico perfetto, di quel conflitto: il senso generale del principio espansivo ed esplosivo del proprio materiale, meticolosamente descritto, a cui viene concesso di dare vita, colorare e vivacizzare il valore contestato, tenendo, tuttavia, il suo desiderio di spazio e l’astuzia per conquistarselo”. Le istruzioni per il lettore sono ancora più articolate del racconto, poi, come diceva Henry James, “viviamo nell’oscurità, facciamo quel che possiamo, il resto è la follia dell’arte”, e a lui basta una notte romana, rischiarata dalla luna, per rinnovare il mistero e la magia.
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