venerdì 22 novembre 2013

Paul Auster

Questa lunga intervista si rivela man mano che il dialogo si infittisce in una raffinata dissertazione sullo scrittore, sulla sua arte e su quella particolare realtà che si trova a vivere tra la sua immaginazione e il mondo, fuori. Paul Auster parte da alcune constatazioni molto semplici: a) “scrivere non è un modo molto interessante di vivere: seduto il giorno intero in un locale, tutto solo, concentrato su una macchina per scrivere. Eppure non potrei mai immaginare di non farlo: la mia vita sarebbe vuota e incompleta se non scrivessi”; b) “mi sento sempre più un principiante, continuo ad imbattermi nelle stesse difficoltà, gli stessi vuoti, le stesse disperazioni. Scrivendo si fanno così tanti errori, si cancellano così tante brutte idee e frasi sbagliate, si cestinano talmente tante pagine prive di interesse che alla fine uno capisce almeno una cosa: quanto si è profondamente stupidi. Scrivere è un’occupazione che rende umili”. Le trame della scrittura meriterebbe solo per la seconda asserzione, diretta conseguenza della prima, perché riporta all’intima natura della scrittura, e della letteratura, dove “ogni libro è un’immagine della solitudine”. Anche l’identificazione di Paul Auster e della sua narrativa con una città, New York, e con un quartiere in particolare, Brooklyn, è funzionale a delineare Le trame della scrittura che è sempre l’approdo finale. Un microcosmo, un laboratorio umano che, come dice Paul Auster, “è un modo di raccontare il mondo attraverso personaggi umili e quotidiani, un mondo nel quale anche la presenza di oggetti inanimati, apparentemente semplici e banali, contribuisce ad esprimere emozioni particolarmente vivide”. Quello di Paul Auster, anche nel limitato formato di un’intervista è un modello apprezzabile e condivisibile lui riassume così: “Scrivere, per me, non è un atto scientifico. E’ come vivere all’interno di un sogno, e cercare di capirne il significato”. Ciò non toglie che uno scrittore sia estraneo alla realtà, anche perché una volta che si è applicato abbastanza scoprirà che “le atmosfere sono altrettanto importanti dei fatti: e quando un certo tipo di discorso arriva al paese dal vertice, influenza il modo di pensare e vedere se stessi e gli altri dell’intera nazione”. Ecco perché anche dal suo recinto di Brooklyn, Paul Auster riesce a essere convincente quando si deve confrontare con una dimensione culturale come quella americana, insieme complessa e degradata: “La nostra è diventata una cultura della spazzatura, nutrita solo da celebrità e pettegolezzi. Nessuno cerca più di vedere e ascoltare quello che sta davvero succedendo nel nostro paese. La televisione distorce la realtà americana, e così fa anche il cinema”. Ancora di più quando deve prendere posizione rispetto agli uomini della repubblica è chiaro e semplice come bisognerebbe essere: “Non capisco cosa stiano combinando, perché si comportino così, in quale mondo intendano farci vivere. Sicuramente non è il mondo nel quale voglio vivere io”. Siamo d’accordo.

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