Nella sua casa di
Brooklyn, Ilana Davita Dinn è un magnete per le storie, la loro destinazione,
il capolinea, la meta finale. Per accoglierle, nel trittico di Vecchi a
mezzanotte, Davita si
trasforma in modo sensibile ed è attraente in forme diverse perché “senza
storie non esiste nulla. Le storie sono la memoria del mondo. Senza storie il
passato viene cancellato”. Solo che “i racconti erano una presenza” ed è spontaneo associare una diaspora di
fantasmi, “tenaci, come la memoria”, alle voci che fanno visita a Davita. Da
New York ai confini europei, dalle strade torturate dall’afa al gelido fango
delle trincee, per lei, che è il protagonista in tutti i passaggi, una sorta di
testimone, si tratta di imparare, imparare la lingua di un secolo, il
ventesimo, che si è distinto per la ricerca nell’orrore, nella brutalità, nel
tradimento. Il primo degli ospiti di Vecchi a mezzanotte è Il custode dell’arca ed è, pare ovvio, Noah, un ragazzo che è
l’unico sopravvissuto della sua famiglia ai campi di concentramento a cui
Davita deve insegnare “una nuova lingua. Una nuova cultura”. Al dialogo serve
la necessità di un incontro, e ogni volta Davita e Noah devono trovare un guado
per avvicinarsi. La distanza è anche maggiore quando tocca a Leon Shertov.
Fuggito all’apocalisse della prima guerra mondiale, dove l’ha salvato Il
medico di guerra, dai
fantasmi delle purghe staliniane, a cui si è applicato con solerzia, da
brandelli di vita umana travolti dalla disperazione, deve imparare una lingua,
in mezzo alle tragiche imposizioni del “secolo breve”. Se nel passato di Noah
c’erano gli spettri delle vittime, Leon Shertov è inseguito dal rimorso dei
carnefici. Un esilio infinito. L’ultimo ad arrivare è Il maestro di tropi, Benjamin Walter, insegnante (a sua volta)
e scrittore abituato a misurare “le persone col metro dei libri che leggevano e
delle biblioteche che possedevano in casa”. I suoi codici e le sue inclinazioni
dovrebbero renderlo il più vicino a Davita che nel frattempo è cresciuta,
lasciando trasparire una sensualità, e invece sono separati da un abisso, che
Chaim Potok riesce a rendere con un’ossessiva concentrazione sui dettagli. Qui
la citazione è in un certo senso dovuta e consequenziale perché Vecchi a
mezzanotte conferma quello
che scriveva (l’altro) Walter Benjamin, quello vero: “Scrivere un romanzo
significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita
umana. Pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa
ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del
vivente” ed è l’esatta traduzione del romanzo di Chaim Potok. I tre atti di cui
è composto Vecchi a mezzanotte si incastrano a formare un ciclo perfetto e il numero biblico non è
una coincidenza. Il tenore è apocalittico ed è perché “viviamo in strani tempi.
Occorre proprio visitare un inferno diverso”. Per dirlo con una delle figure
retoriche dello stesso Chaim Potok, Vecchi a mezzanotte è “un maestoso arazzo di vite dal sapore
di sale”. Più che un romanzo, sembra un’ammonizione.
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