lunedì 30 maggio 2022

Timothy Findley

Quando parte per “la guerra che doveva porre fine a tutte le guerre”, il destino di Robert Ross viene stravolto per sempre. Siamo nel 1915 e già il viaggio dal Canada verso l’Europa è un incubo claustrofobico in una nave zeppa di uomini e cavalli in balia delle onde, ma ad attenderlo ci sono luoghi che rispondono al nome di Ypres e Verdun, un mare di fango, un sudario di morte e una follia diffusa. Figlio di una famiglia di industriali, Robert Ross si arruola con le migliori intenzioni, credendo nella retorica dell’eroismo, del valore e del protagonismo nel difendere la civiltà, sostenendo che “quello che conta è non cercare di trovare delle scuse per il proprio comportamento, non cercare rifugio nella tragedia, ma chiarire chi sei attraverso il modo in cui hai risposto al tuo tempo”. La convinzione che “le persone si possono trovare solo nelle loro azioni” si scontra ben presto con la brutale realtà della vita in trincea e con l’apparizione di armi spietate. I gas, i lanciafiamme, gli aerei conducono Timothy Findley a suggerire le contraddizioni implicite a ogni evento bellico, sostenendo che: “A: gli uomini non avrebbero mai fatto certe cose; B: non sarebbero stati in grado di farle. Poi le fecero”. Non c’è posto per la tragica elegia dei guerrieri cantata da Wilfred Owen o Siegfrid Sassoon: Robert Ross è testimone oculare del disfacimento di ogni sensibilità che macina corpi dopo corpi, non solo togliendogli la vita, ma anche un senso. Ferito a sua volta, viene ricoverato in una bucolica magione inglese, a St Aubyn, “un mondo antico, confortevole e sicuro, definito da secoli di un procedere flemmatico”. La vita in ospedale lo riconduce a riflettere sulla repentina mutazione che l’ha visto protagonista insieme ai suoi commilitoni, arrivando alla conclusione che “probabilmente in guerra sì è tutti strani. La normalità è una chimera”. A quel punto il racconto si estende ai legami famigliari troncati dagli eventi bellici e a quelli, imprevisti e fragili, che sorgono sul campo. Se è vero che “gli abitanti della memoria vanno protetti dagli estranei”, l’ottica di Timothy Findley non è mai univoca: si divide tra voci, ricordi, impressioni e altre percezioni, distribuite secondo un ordine non del tutto lineare (anzi) che spesso spiazza e disorienta perché sono “i frammenti di un’intera epoca”, quelli in cui si riflette la storia di Robert Ross. Come se fosse davanti a uno specchio infranto per sempre, deve ammettere che “alla fine gli unici fatti che hai sono quelli di dominio pubblico, e di questi ne fai ciò che puoi, sapendo che una cosa conduce a un’altra. A volte qualcuno dimentica se stesso e parla troppo, altre basta l’angolo di una fotografia per rivelare tutto”. La desolazione viene assorbita come un virus feroce e inarrestabile, la resa si manifesta negli odori, nei gesti, nella fatica, nei disperati tentativi di restare a galla, cercando di aggrapparsi a un singolo momento, ormai lontanissimo e irrimediabilmente perduto: “Quelli come voi, nati dopo, non sapranno mai che cosa significava dormire in città sulle quali cadeva silenziosa la neve, quando tutto ciò che si udiva nella notte erano i cani che abbaiavano contro treni che correvano lontani, lungo scorciatoie che fendevano i sogni senza svegliare nessuno. Fu la guerra a cambiare tutto questo. Proprio così. La grande guerra per la civiltà cambiò il sonno”. L’ultimo, accorato appello, nel cupo e tumultuoso finale, recita: “Spero soltanto una cosa: che ricordino che eravamo esseri umani”. Ha l’amarissimo sapore di una sentenza e, insieme, di un avvertimento, ancora attuale, a distanza di un secolo, purtroppo.

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