lunedì 2 settembre 2019

John Updike

Nell’estate del Watergate, Thomas Marshfield, un pastore fedifrago e reo confesso, viene allontanato dalla sua parrocchia e spedito in una sorta di rehab spirituale nel deserto. L’auto da fé comprende la noia, il golf, il poker e la scrittura sotto il rigoroso controllo della sovrintendente dell’amena località, Ms. Prynne. È a lei che, nella sua nuova condizione, si rivolge cominciando subito con una plateale autoassoluzione: “Secondo la mia diagnosi, invece, non soffro di nulla di meno virulento che della condizione umana, predicavo di conseguenza”. Nel ricostruire le peripezie sessuali, la prosa si fa rigogliosa, provocatrice, elaborata, ipnotica e ricca di citazioni, boutade e calembour. Il lapsus tra gioia, gola e foia basterebbe per un altro romanzo e l’apologia dell’adulterio è sovrapposta e incastrata lungo la storia della filosofia, che il pastore rielabora in continuazione per le sue personalissime conclusioni, a partire dal fatto che “per quanti diversi modi si possa dimostrare che le nostre vite sono insignificanti non ci resta che viverle come se non lo fossero”. La scrittura è un’ordalia in cui Thomas Marshfield sguazza senza limiti, celebrando la conoscenza (“Ci muoviamo attraverso ciò che sappiamo; non è opaco, ciò che sappiamo, e neppure è un ostacolo né un nemico: siamo noi stessi e al tempo stesso non lo siamo”), la ricchezza di vocabolario, il divertissement lessicale in un amalgama spudorato, almeno quanto le sue manifestazioni sessuali. Eccede nei dettagli, come in ogni altro passaggio, ma non bisogna lasciarsi fuorviare. John Updike pone il celebrato protagonista di Un mese di domeniche in un’inequivocabile posizione strategica rispetto alla sua funzione e al suo peccato, da dove può godersi quello che definisce “uno spasso! Prima intagli le marionette, poi le agiti e le muovi”. Una condizione ristretta, senza via d’uscita, ma d’altra parte intoccabile, manifestazione di tutta una vita trascorsa a leggere, ad approfondire, a convivere con la parola (sacra e profana). Il riflesso, la pulsione frenetica dei corpi, l’osservazione da voyeur penitente e incallito si stratificano in un monologo irto di di disquisizioni coltissime e di momenti molto più prosaici, spesso ridicoli, sempre sublimi nella loro rappresentazione. L’attesa dell’abiura o dell’ennesimo colpo del tombeur de femme, tra una partita a golf e una a poker (il golf come metafora esistenziale e il bluff nel poker come soluzione finale), intervallano la meticolosa ricostruzione del danno compiuto partendo dal ménage famigliare con la moglie (Jane) e proseguendo con una prima relazione pericolosa con Alicia (che farà da detonatore per una reazione a catena che coinvolgerà la maggioranza delle parrocchiane), poi una liaison altrettanto temeraria con Frankie Harlow (coniugata con il locale direttore di banca, nonché influente membro del consiglio pastorale) e infine con una serie di incontri e acrobazie negli angoli e nei dintorni della chiesa. Contraltare delle prestazioni fuorilegge di Thomas Marshfield, sono i suoi sermoni e le discussioni che sottolineano un carattere indomito e volitivo, sicuro di sé fino al narcisismo (“Mi amo e mi odio più di qualunque altro essere umano. Uno di questi eccessi attrae le donne, ma quale?”) e serafico anche nel bel mezzo della confusione che ha generato. O, forse, proprio per quello: il dubbio è che, per quanto sia accomodato a recepire le conseguenze delle sue malefatte, cosciente del ruolo e delle circostanze (“Benché mi preferisca in stracci, la chiesa non è un ballo in costume”), nel tono della scrittura, nelle iperboli sparse a piene mani, nell’eloquio scoppiettante, Thomas Marshfield celi un recalcitrante, erudito e impunibile recidivo che dietro la brillante cortina fumogena con cui declama la sua penitenza (“Se la sottomissione è mia, la tentazione è degli altri”) in verità professa una pacifica innocenza e una spiccata attitudine a sorprendere se stesso, la sua lettrice e tutti i lettori. Inevitabile che John Updike sia andato a nozze con un personaggio così equivoco, ricco di risvolti e idiosincrasie, sfruttandolo per liberare tutta la sua verve in un romanzo voluttuoso, eccessivo e geniale.

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