martedì 20 gennaio 2015

Philip Roth

Patrimonio è uno dei primi gradini che Philip Roth ha affrontato nel ridisegnare l’età avanzata, quando la mortalità si manifesta ineluttabile, come qualcosa di tangibile, ovvero diventa “la più brutale delle realtà”. La decadenza fisiologica del corpo e dei tessuti, che sono martoriati dal tempo e dagli eventi, sembra disgregare anche il rivestimento dei legami che si rivelano fragili e instabili. Il decorso è parallelo, la sorpresa diventa imbarazzo: più gli anni passano e più la famiglia si allarga, non tanto nel senso del numero e della forma, quanto perché si aprono squarci nei contorti rapporti degli adulti e “il più intimo intreccio della vita in comune di due genitori, le difficoltà e le delusioni e le lunghe tensioni, rimane misterioso”. Nella metamorfosi emergono e sono messi in rilievo i nodi che avvicinano e/o allontanano le persone nell’ambito, quello famigliare, e in particolare, visto che Philip Roth sta seguendo il dolorosissimo crepuscolo del padre, diventa chiaro che “tutti i figli pagano un prezzo, e il perdono implica perdono anche per il prezzo che hai pagato”. La percezione di Philip Roth è lucida e ancora di più la sua traduzione nella scrittura: non usa gli aggettivi a caso, anzi lo fa con parsimonia, e quando la rete famigliare si scioglie insieme alla corruzione delle fibre davanti ai bambini, che ormai sono diventati adulti, appare in tutta la sua chiarezza “l’abisso struggente tra i nostri padri e noi”. In sé,  è la definizione perfetta di Patrimonio: la descrizione delle sofferenze del padre (e poi delle sue), della vecchiaia e della malattia che incombono con tutto il loro peso sull’animale morente è lirica, estrema, straziante. Philip Roth è capace di raccontare la sua storia come quella dei suoi personaggi e dei suoi romanzi, con la stessa coraggiosa vocazione a lasciarsi coinvolgere e con quella scrittura minuziosa, millimetrica, acuta (cerebrale, nella migliore accezione del termine) sensibilissima nel salvaguardare quello che si può, magari giusto un po’ di nostalgia, visto che “forse eravamo gente comune, ma le nostre relazioni non mancavano di grandeur”. Philip Roth scrive Patrimonio con devozione (filiale) perché, come sostiene il padre, “se un uomo non è fatto di ricordi, è fatto di niente”, e lo fa senza rinunciare a quella forza capace di “fare con le parole un buco nella testa di qualcuno”. E’ un libro accorato e accurato: costruisce sulla cognizione del dolore e della sofferenza un’intera memoria, più che una storia, senza esitare davanti ai particolari più degradanti e sgradevoli. Può apparire persino ossessivo e morboso nell’accanirsi sui dettagli clinici, dalle diagnosi sempre un po’ empiriche alle incognite delle soluzioni chirurgiche, in cui si distingue per le minuziose ricostruzioni, non è soltanto per lo scrupoloso lavoro del narratore. E’ così perché “la battaglia è diversa per tutti e la battaglia non finisce mai”, e poi bisogna dire che Philip Roth è sublime anche quando si merita, in Patrimonio, di sguazzare in mezzo alla merda. 

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