lunedì 5 dicembre 2011

Flannery O’Connor

Quello che affronta Flannery O’Connor è un territorio marcato da punti di domanda affilati come filo spinato, una zona di frontiera che viene riassunta con queste mirabili parole: “Quando parliamo della terra dello scrittore, siamo inclini a dimenticarci che, qualunque terra sia, essa è dentro come fuori di lui. L’arte richiede un delicato adattamento tra il mondo esteriore e quello interiore, in modo che, senza snaturarsi, possano essere l’uno il riflesso dell’altro. Conoscere se stessi è conoscere la propria regione. E’ anche conoscere il mondo ed è altresì, paradossalmente, una forma di esilio dal mondo. Il valore dello scrittore si perde, per sé e per la sua terra, non appena cessa di considerarla come una parte di sé, e conoscere se stessi è, soprattutto, conoscere quello che manca”. Non è un territorio facile, non lo è mai stato, in più Flannery O’Connor ci aggiunge una meticolosità tutta sua nell’affrontare l’arte della scrittura e le sue evoluzioni, senza nascondersi nulla: “Le forme artistiche si evolvono fino a raggiungere la perfezione ultima, o uno stato di fossilizzazione, oppure finché non viene innestato un nuovo elemento e creata una nuova forma artistica. Ma qualunque sia stato il passato della narrativa o quale sarà il suo futuro, allo stato presente un brano di narrativa deve essere un’unità drammatica autosufficiente”. Se queste sono le fondamenta, e dovrebbero esserle sempre, Flannery O’Connor ha una concezione particolare del rigore che non è fatto di imposizioni formali, di costruzioni e di norme. E’ una sorta di assoluto morale che si traduce in una continua sfida con la scrittura, un confronto ideale serrato e mai pedante che non lascia niente al caso. E’ lapidaria e intransigente sulla prima e unica linea di demarcazione: “Base dell’arte è la verità, nella sostanza come nella forma. Chi nella propria opera persegue l’arte, persegue la verità. In senso immaginativo, né più né meno”. E’ la disposizione nei confronti della scrittura e della lettura, ancora prima dell’atto in sé, a formare l’identità di uno scrittore e di un lettore e Nel territorio del diavolo, Flannery O’Connor la rende evidente in modo progressivo e convincente: “La mente che sa capire la buona narrativa non è di necessità quella istruita, ma la mente sempre disposta ad approfondire il proprio senso del mistero attraverso il contatto con la realtà, e il proprio senso della realtà attraverso il contatto con il mistero. La narrativa dovrebbe essere oculata e occulta”. Nel territorio del diavolo ha il sorprendente pregio di rendere limpida la visione di Flannery O’Connor. E’ l’accettazione di un mistero che ha sempre del prodigioso perché “chi è senza speranza non solo non scrive romanzi ma, quel che più conta, non ne legge. Non ferma a lungo lo sguardo su nulla, perché gliene manca il coraggio. Il miglior modo per piombare nella disperazione è rifiutare ogni tipo di esperienza, e il romanzo è senz’altro un modo di fare esperienza”. Un manuale di sopravvivenza. 

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