martedì 9 novembre 2010

Bob Dylan

Un mosaico di stati di allucinazione connessi e sconnessi tra loro in perfetta simbiosi con le radici e i collegamenti sotterranei e le amicizie di Bob Dylan con e per la Beat Generation. Un lungo e intricato monologo, frutto di un personalissimo flusso di coscienza come della scrittura dell’uomo “della strada”, che usa le parole dei menù, delle insegne, dei titoli, dei cartelli stradali e dei suoi stralunati appunti per giocare con il linguaggio, per inventarne uno nuovo. Tarantula va preso per quello che era ed è ancora: un esperimento, l’alchimia impossibile di una forma in via di evoluzione, un’onda irregolare, un segmento relativo in un contesto, la storia di Dylan, dove nulla è relativo. Per la sua contorta realtà, Tarantula rende bene lo spirito e le logiche di un’epoca in cui la creatività aveva una valenza assoluta, persino politica ed è un fenomeno misterioso perché è denso di una passione per il linguaggio e per le idee che il linguaggio esprime che si fa musica, ma come ben sappiamo “il mondo è gestito da coloro che non ascoltano mai musica”, e allora meglio confinare certi exploit nelle riserve dell’ignoto, dell’eccentrico e del bizzarro, se non proprio del freak. Dylan che qui interpreta Dylan & Dylan & Dylan procede senza esitazioni con le sue “associazioni da drogato” (così nell’affettuosa definizione di Fernanda Pivano) con l’ingenuo entusiamo di uno che si è “svegliato con la fissa della libertà in testa”. Più che una trama, per comprendere a fondo Tarantula serve la cassetta del pronto soccorso di William Burroughs perché è con una sorta di evoluzione del “cut & fold-in” che Dylan tiene insieme illusioni (“Mi piacerebbe fare qualcosa che valga la pena, come ad esempio piantare un albero in mezzo all’oceano ma sono soltanto un chitarrista”), precisazioni (“Io qui presente non voglio aver niente a che fare con le tue fissazioni. Non m’importa quel che pensi del mio lavoro dato che ora so che comunque non lo capisci”), ossessioni (“Se hai intenzione di mandarmi qualcosa, mandami una chiave, troverò la porta in cui entrare, dovessi provarci vita natural durante”). Tarantula sembra fatto apposta per sviare, distorcere, confondere e provocare, ma nella sua folle autonomia riesce a indirizzare un paio di messaggi che, anche a distanza di mezzo secolo, suonano logici e lucidi. Il primo è una “risposta che soffia nel vento” piuttosto convincente e senza controindicazioni: “Non farti le tue idee, quelle ce le hanno tutti, fa’ che siano le idee a farti e parla con melodia”. Il secondo è una linea di demarcazione netta perché, diceva Dylan, non ho niente da “prendere da voi tranne che una coscienza sporca”, e tanto basta. Tarantula non è solo una grande apologia della Beat Generation, è un mosaico folle & intenso di voci, una cacofonia che diventa orchestra. E’ un’accozzaglia di esortazioni & ritagli & epitaffi & scongiuri, una forma che non è poesia e nemmeno prosa, non è nemmeno una forma, in fondo perché Tarantula “ti costringe a imparare cose che non hanno niente a che fare col mondo esterno e poi ti butta fuori a calci”. Ancora meglio dell’anarchia, è la bellezza del caos. 

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