lunedì 7 aprile 2025
Carl Hiaasen
giovedì 3 aprile 2025
Robert Lowry
mercoledì 2 aprile 2025
Erskine Caldwell
giovedì 27 marzo 2025
Smith Henderson
mercoledì 26 marzo 2025
Joan Didion
The White Album, e ogni riferimento ai Beatles non è casuale, raccoglie testimonianze di Joan Didion in un arco temporale che va dal 1968 al 1978, ultima tappa di un tour de force senza limiti. Sono anni esotici, erotici e caotici in cui Joan Didion non si identifica finché arriva precisare che “quel che mi sono costruita è privato, ma non è esattamente pace”. La sua individualità, la sua formazione sono troppo definite per apparentarsi con un’ideologia e in quella condizione è come se per tutti quei tempi che stavano cambiando avesse avuto la pelle scoperta. Una straordinaria sensibilità capace di coniugare le esperienze personali (e famigliari) con le cronache inquiete, ancora di più, l’atmosfera di un decennio turbolento e non proprio così sereno e felice. Joan Didion rimane partecipe e lucida, scrive con un’attenzione profonda, che si tratti di un articolo sullo stoccaggio di sarin e gas nervino o del resoconto di una session dei Doors per Waiting for the Sun. È incisiva in ogni frase e nella forma del saggio breve, che è lo standard della collezione di The White Album, trova una particolare ispirazione nel giostrarsi con le contraddizioni e gli exploit dei protagonisti dell’epoca, dagli adepti di Charles Manson a politici, predicatori, ribelli e rock’n’roll star in ordine sparso. Si ritrovano tutti sotto la lente di Joan Didion che ha un modo scrupoloso di osservare ogni singolo dettaglio, pur mantenendo una specifica distanza emotiva dall’euforia e dall’effervescenza dell’epoca, sottolineata con una frase lapidaria: “L’unico commento che posso offrire è che, ripensandoci adesso, un attacco di vertigini e nausea non mi sembra una reazione inappropriata all’estate del 1968”. Al giro di boa dei Sixties, dedica gli splendidi ritratti di Doris Lessing e Georgia O’Keeffe, da inserire nel contesto di un’analisi molto acuta sul femminismo che merita di essere letta e riletta spesso. La sfera pubblica e quella più intima e riservata si susseguono e si completano senza sosta: la descrizione dell’emicrania (un fatto molto personale) è un’apoteosi di stile e classe così come uno dei momenti più lirici è il resoconto della trasferta alle Hawaii. Siamo già nel 1970 e gli “arrivi dal Vietnam” (1078 morti nelle prime dodici settimane dell’anno) toccano anche le pendici dei vulcani a cui Joan Didion dedica pagine toccanti. I reportage di viaggio comprendono angoli del mondo remoti, come Bogotà ed El Dorado, un mito fatto di polvere d’oro, e distrazioni casalinghe con le orchidee e i bagnini di Malibu, gli incendi a Los Angeles, le leggende colombiane e le astruse routine di Hollydwood, dalle idiosincrasie della critica cinematografica alle clausole contrattuali che determinano il futuro di un film ancora prima di una singola ripresa. Lei annota e commenta tutto, senza differenze o confini, ma trovando una collocazione per ogni immagine, fino a riconoscere “l’America con tutte le sue intemperie ed eccentricità e specificità tanto variabili da inebriare”. Una riscoperta che trova un supplemento di riflessione nell’ampia digressione sui nuovi quartieri residenziali e sullo sviluppo dei centri commerciali, primo sviluppo architettonico di tutta un’altra era. Joan Didion, per non smentirsi, la percepisce come un’opportunità esclusiva, con tutta l’ironia compresa nel prezzo: “La mia vita vera consisteva nel starmene seduta in quell’ufficio a descrivere come si viveva a Giacarta, a Caneel Bay e nei grandi châteaux sulla Loira, ma la mia vita immaginaria consisteva nell’allestire un centro commerciale regionale di classe A con tre grandi magazzini generalisti come locatari principali”. L’iperbole ha senso e Joan Didion ammette che è proprio in quel momento che comincia “a vedere tutto il paese come una proiezione in aria, una specie di ologramma, un’astratta griglia di immagine, opinione, impulso elettronico”. Arrivata ormai al 1978, volge lo sguardo a quello che è ormai diventato un passato ancora da decifrare: “Noi altri, per la maggior parte viviamo in modo meno teatrale, ma rimaniamo i superstiti di un’epoca insolita e introversa. Se riuscissi a credere che salire su una barricata possa avere il minimo effetto sul destino dell’uomo, ci salirei, su quella barricata, ma non sarei onesta se dicessi che prevedo di imbattermi in un finale tanto lieto”. Le resta un ultimo brindisi (bourbon, direttamente dal servizio in camera) e poi tanti saluti a Lucy In The Sky With Diamonds, a Mr. Tambourine Man, e addio anche al re lucertola.
lunedì 24 marzo 2025
Tom Wolfe
mercoledì 19 marzo 2025
Henry Miller
martedì 18 marzo 2025
Larry McMurtry
Luna comanche ci riporta all’inizio della saga di Gus e Call, quando i ranger sono l’unica unità a presidiare “la frontiera, dove ordine e legge erano parole sconosciute e regnava il caos”, un confine che viene spostato di volta in volta lungo i territori indiani, verso il Messico, dentro le praterie, creando per ogni passaggio un nemico nuovo e diverso. L’America è nata così, compresa la guerra civile, che si stende come un’ombra cupa su Luna comanche. Larry McMurtry è lirico ed entusiasmante nel descrivere i destini umani e quelli degli stati, che finiscono nel sangue e nella polvere. Per Gus e Call è un momento crepuscolare di sacrifici immani e, più di tutto, distinto da una solitudine stringente. Le missioni sono spesso dei fallimenti, tanto è vero che Gus dice: “Quando mi assegnano un lavoro impossibile, la mia soluzione è trovare un bordello e restarci finché sono senza un soldo”. Non è molto diverso per l’amico di sempre, Call, che delinea il quadro della situazione con poche, essenziali parole: “Non abbiamo un metro di terra. Non sono nostri nemmeno i cavalli. Tutto quello che abbiamo sono le pistole e i vestiti. E le selle. Almeno quelle sono nostre”. Anche dalla parte comanche, l’aria che tira è quella della fine di un’epoca: le ultime, sanguinose scorrerie di Buffalo Hump, i furti di cavalli di Kicking Wolf, la ribellione di Blue Duck conducono sullo stesso territorio, tra il Texas e il Messico. Racconti e leggende si tramandano attraverso un ambiente aspro, durissimo e affascinante (il deserto, le montagne, i canyon, il llano, i fiumi e la prateria) dove il tempo sembra non passare mai. La capacità di intessere i luoghi, gli animali, la vegetazione con gli esseri umani porta Larry McMurtry a dipanare una trama che va ben oltre le bellicose contingenze di tutti: banditi, guerrieri, soldati, ribelli, furfanti, giovani e vecchi che siano. L’avvicendarsi dei personaggi che si muovono in gruppo attorno a Gus e Call, ma che poi emergono in prima fila uno dopo l’altro, rivelandosi protagonisti nello stesso modo, rende Luna comanche una volitiva scorribanda che svela la debolezza intrinseca del potere e delle sue espressioni più violente (la guerra, gli stupri, le torture, i rapimenti) così come le sconfitte dei ranger, sia sul campo, sia una volta tornati a casa, ad Austin. Figure ingombranti, e fuori posto, come il colonnello (poi generale) Inish Scull e la moglie Inez, si scontrano con entità misteriose come Ahumado, un predone messicano che esercita le crudeltà più assurde per regnare incontrastato in un angolo sperduto del border. Con una generosità unica, comprensiva di ogni dettaglio e, tra le righe, persino di un sottile senso dell’umorismo, Larry McMurtry non risparmia nulla e ipnotizza il lettore nel raccontare le gesta di Gus e Call, nell’epicentro di un mondo ormai travolto dagli eventi: la colonizzazione del West, l’estinzione dei bisonti, la guerra in ogni declinazione e in tutte le direzioni, si scontrano con credenze e sogni, menù con “zuppa di gufo” e antilocapra arrosto, storie d’amore e di follia, tracce di fughe e inseguimenti, sullo sfondo di una pianura “così vasta da dare l’impressione di vedere l’orlo dell’infinito, eppure in tutto quello spazio non c’era nulla”. Un posto sperso nel nulla come Lonesome Dove appare come un miraggio e c’è un motivo da ricordare: Luna comanche è l’ultimo episodio dell’epopea di Larry McMurtry, ma è il secondo capitolo nell’ordine della narrazione, giusto tra Il cammino del morto e Lonesome Dove. Sarà il futuro per Gus e Call, ma una reliquia del passato nel corso della conquista e della creazione di una nazione. Una rappresentazione epica di un tempo drammatico, un romanzo grandioso.