lunedì 6 ottobre 2025

Kim Wozencraft

Il doppio gioco è un’arma complicata e pericolosa, anche quando è condotto in nome e per conto della legge e della giustizia. Rush racconta, con una forma immediata, mai edulcorata, semplice, dura e diretta, la missione di due agenti della narcotici che vengono infiltrati nel milieu di spacciatori, tossicodipendenti e outsider assortiti nella cittadina di Beaumont, Texas. Kristen Cates è una giovane allieva di polizia, mentre il suo mentore e compagno, Jim Raynor, è già un veterano: insieme devono annullare le proprie identità, fingere giorno e notte, provare gli stupefacenti in quantità, per non smentirsi, e finiscono per ritrovarsi invischiati senza quasi accorgersene: “Avviene per gradi, così piano che non te ne accorgi. Le offese, le morti, le menzogne ti martellano e, alla fine, ti guardi dentro e trovi il nulla. Il vuoto. Ed è maledettamente bello non sentire male”. Oltre che il corpo di reato, la droga diventa lo strumento ideale per condire l’ambiguità dove il dovere e il diritto vengono confinati in un angolo e, alla fine, “le cose succedono. E tu ti chiedi se tradire o diventare cieco”. Il capo della polizia, Donald J. Nettle, pretende risultati perché vuole essere confermato nella sua posizione e l’inganno è velenoso e contagioso, ma anche nelle nebbie che avvolgono Rush, Kristen riesce ad accorgersi delle distorsioni: “Avrei dovuto ascoltare. Avrei dovuto dar retta a quella parte di me che da qualche punto del mio cranio mi bisbigliava sta’ attenta. Io zittivo la voce, le dicevo di tacere, di andare via, di lasciarmi stare. Avevo deciso che sapevo quello che facevo”. Troppo tardi: anche il dialogo interiore, che è una costante in Rush, è diventato ingannevole: “Compravamo molta roba, proprio tanta, ma continuavo a dirmi che era tutto sotto controllo. Venirne fuori non sarebbe stato un problema. Ero forte abbastanza. Ce l’avrei fatta”. Ore, giorni, settimane, mesi, la stessa storia. Mentre il tempo si dilata e diventa una variabile confusa, il perimetro si restringe. Kristen si ritrova in “un puntino bianco, minuscolo, piccolissimo. Uno spazio così esiguo tra l’infelicità e la gioia”. Sperimentano tutto, compresa un’overdose (per Jim), e la teoria di “combattere il crimine con il crimine”, inclusa la creazione di prove false, diventa solo l’ennesimo lavoro sporco: la sopravvivenza è l’unico obiettivo. Kristen è lapidaria: “Siamo tutti insieme. Un giorno, in una mattina di sole, vi tradirò in nome della legge. Ma per il momento, andiamo tutti in trip e ascoltiamo la musica”. Nell’aria scorrono a ripetizione AC/DC, J. J. Cale, Supertramp, Rod Stewart, Marvin Gaye, Lou Reed, Patsy Cline, Ray Charles, Willie Nelson, Johnny Paycheck, Merle Haggard, Sammy Hagar, Rita Coolidge, Neil Young e soprattutto gli Steely Dan. La colonna sonora sfuma, l’indagine giunge alla conclusione, gli arresti vengono effettuati, ma è soltanto l’inizio e Kristen Cates, una volta ripreso il suo nome, riassume così tutto il processo: “Cambia identità, buttati nella melma e gioca a ripulire le strade, poi saltane fuori e ricomincia esattamente dove hai smesso, presumibilmente come un essere umano rispettabile”. Kristen e Jim si ritrovano incastrati più volte, anche perché “gli sbirri non hanno tempo di fare domande, sono troppo occupati a restare vivi”. Vengono aggrediti a colpi di fucile, non hanno un posto dove nascondersi o dove fuggire, l’FBI li costringe a confessare gli abusi e le irregolarità e li trascina in tribunale, dove sono condannati. Il capo della polizia è già altrove, immerso nella politica, e ormai sono abbandonati al loro destino. Seguendo da vicino la liaison tra Kristen e Jim, Kim Wozencraft, ci offre uno sguardo crudo, livido e spietato dentro un mondo di ombre, difficile da cogliere, se non lasciandosi trasportare e sporcandosi le mani, proprio come succede in Rush.

mercoledì 1 ottobre 2025

Oakley Hall

Quella delle Bad Lands è un’enclave americana limitata, nello spazio e nel tempo, che vive ancora nella condizione selvaggia della frontiera. All’alba del 1883, trascorsi quasi vent’anni dalla fine della guerra di secessione, l’irruzione della ferrovia e del filo spinato stanno riducendo le distanze e delimitando nuovi confini. Jonathan Raban in Bad Land (nessuna parentela, molte coincidenze) precisa che “i recinti, oltre che utili, erano anche un’affermazione concreta dell’idea che quella terra selvaggia poteva essere domata”. Le Bad Lands sono destinate a essere assoggettate: i bisonti non ci sono più, gli indiani sono stati decimati e spinti nelle riserve e nei territori, insieme ai treni, stanno per arrivare le leggi federali, come negli altri stati formalmente compiuti. La conquista del West, venduto come una terra promessa, è una vittoria coloniale e una tragedia umana. Le Bad Lands non concedono nulla: sono un’area affascinante, ma anche ostica per via del clima, delle condizioni del terreno e di minacce e imprevisti assortiti. Anche allevare il bestiame, che dovrebbe essere l’attività più pacifica del mondo, si rivela un lavoro molto pericoloso. È in questo scenario che incontriamo Andrew Livingstone, in arrivo dalla costa orientale, Lord Machray, un eccentrico e intraprendente scozzese, la famiglia Hardy, che da tempo si è stabilita nelle Bad Lands, insieme a una fiera maîtresse, Cora Benbow, e a uno scaltro cacciatore, Bill Driggs. Sono i principali protagonisti degli scontri per il controllo dei pascoli e del bestiame che ben presto, tra tradimenti e capovolgimenti di fronte, razzie e scorribande, mercenari e pistoleri, incluso Jack Boutelle, particolarmente infido e odioso, si trasformano in una vera e propria guerriglia attorno ai ranch per il dominio delle Bad Lands. La violenza e le armi, una diffusione endemica e letale, sono l’unica forma di giustizia che poi si traduce in vendetta. Lo sceriffo è troppo lontano per intervenire e non ha né la forza né la volontà per controllare le posse e le bande che scorrazzano sui crinali delle Bad Lands. Occorre difendersi (e attaccare) da soli: il legame tra Livingstone e Machray, nato da una sfida di pugilato improvvisata in mezzo alla prateria, è altalenante, ma alla fine si rivela il sodalizio più efficace. Tra le tante bizzarrie, Lord Machray oltre a un’energia esagerata, ha una solida esperienza militare. Livingstone coltiva una comprensione politica delle trattative e delle strategie e insieme riescono a tenere testa alle turbolenze che agitano le Bad Lands, ma non a quello che sta succedendo che “è un processo implacabile, a quanto pare: col tempo, il bene presente nelle cose finirà per essere corrotto, degradato al minimo comune denominatore della malvagità umana”. Una storia americana che non lascia scampo: l’epilogo, nel 1885 e con una coda all’inizio del ventesimo secolo, è amaro, senza vincitori o vinti, solo sconfitti perché “il tempo aveva stravolto tutto, ciò che prima era sbagliato ora appariva giusto e il giusto era diventato sbagliato”. Senza le vette liriche di Cormac McCarthy o la capacità immaginifica di Larry McMurtry, Oakley Hall si affida piuttosto a uno stile immediato, diretto, comunque in grado di sottolineare momenti drammatici e tesissimi così come i non pochi episodi più coloriti. La scrittura persegue in modo arguto e scorrevole (compreso l’epistolario parallelo di Livingstone) un’immagine realistica del West e Bad Lands, pur con tutti i suoi limiti, è una rappresentazione concreta della formazione degli Stati (poco) Uniti e di quello che sono diventati e del resto, se lo snodo di tutta la storia è un bordello, un motivo ci sarà.

giovedì 18 settembre 2025

Daniel Keyes

Basato su una storia vera, per quanto assurda possa sembrare, Una stanza piena di gente ripercorre il caso emblematico di William Stanley Milligan, che in tutta la sua complessità mette in discussione gli elementi del diritto e della psichiatria in relazione alle “personalità multiple”. Tutto comincia nell’ottobre del 1977 quando Milligan, all’epoca poco più che ventenne, viene arrestato per violenze sessuali e rapine ad danni di tre studentesse universitarie. Lui si proclama innocente, ma non riesce a capacitarsi dell’evidenza delle prove che lo conducono dritto in tribunale. Durante il processo, però, gli viene diagnosticato e riconosciuto un gravissimo disturbo psichiatrico: nella sua mente convivono dozzine di personalità che hanno una loro autonomia, in termini di decisioni e responsabilità, una gerarchia e un modo imperscrutabile di “uscire sul posto”, ovvero di presentarsi nei momenti più o meno opportuni. Billy o il vero William Milligan affida a ciascuna delle altre “personalità” una missione, uno scopo: assorbire il dolore, proteggersi in ambienti ostili, trattare con le istituzioni, gestire le emozioni, a partire dagli atroci traumi subiti nell’infanzia. Un complesso sistema di autodifesa, compreso il “sonno” dello stesso Billy, tenuto in disparte dalle altre personalità perché “se vogliamo sopravvivere in questo mondo, dobbiamo fare un po’ di ordine in tutto questo caos”. Il dilemma centrale è la capacità di intendere e volere di un individuo occupata da “personalità multiple”, con tutte le ambiguità giuridiche, giornalistiche e, più di tutto, politiche che hanno condizionato il caso di William Milligan. Come imputato la sua esigenza principale è quella di chiunque: “Voglio essere di nuovo un cittadino. Vorrei imparare da capo a vivere”. A quel punto giocano un ruolo fondamentale le istituzioni, l’esercizio dell’autorità e l’amministrazione della giustizia dagli ospedali al carcere, e il trattamento della malattia mentale, tra la coercizione e il tentativo delle cure, che prevede la “fusione” delle personalità, in cerca di un equilibrio. Daniel Keyes, dal canto suo, organizza il racconto con caparbietà e con un’attenzione speciale. Dove non è sufficiente la documentazione ufficiale a cui ha attinto ci arriva la sua abilità di narratore che riesce a congiungere tutti i punti lasciati in sospeso, ma soprattutto a delineare con estrema precisione l’intricata querelle, rendendo avvincenti anche gli aspetti più contorti e macchinosi della realtà giuridica e scientifica. Dalla metà in poi, cioè dalla storica sentenza, Una stanza piena di gente diventa in effetti diventa un lunghissimo flashback che mette in evidenza la turbolenta convivenza delle “personalità multiple” che sono divise dall’età, dalla loro percezione, persino dalle idee politiche o dai “vuoti di tempo” lasciati quando il palcoscenico della vita è occupato da qualcun altro. Così, quando “sembrava che le cose succedessero sempre più ravvicinate tra loro, si stava preparando un altro brutto periodo di confusione”, la distanza tra figure prominenti come “il Maestro” o poco più che fugaci come gli “indesiderabili” che convivono in William Milligan aumenta e ci conseguenza si aggrava il suo disturbo dissociativo. Nella versione di Daniel Keyes la convivenza e il conflitto delle personalità affiora come un riflesso della società in sé e Una stanza piena di gente ha senza dubbio il pregio di illustrare un tema ostico, da tutti i punti di vista, ma la questione resta irrisolta e così l’enigma di William Milligan che, stando alle notizie più recenti, sarebbe diventato un produttore di Hollywood. Nessuna sorpresa, lì la sua patologia è uno stile di vita.

lunedì 15 settembre 2025

Paul Bowles

Quando propose Il tè nel deserto ai suoi editori, se lo vide respingere perché si aspettavano un romanzo e invece si trovarono tra le mani “una cosa diversa”. Nell’episodio in sé, c’è molto di Paul Bowles che scrive per sottrazione, lasciando al lettore il compito di decifrare il fitto tessuto di ombre, lingue, montagne, sogni, premonizioni, incontri, fughe e sparizioni. Il ritmo è cadenzato dal trascorrere delle giornate, alba e tramonto, il caldo asfissiante di giorno e il freddo pungente nel buio, una forma fluttuante con le immagini che compongono l’intero vocabolario, insieme ai suoni che provengono da ogni angolo. C’è una colonna sonora costante, un battito delle mani, la melodia di un liuto, una tromba, un flauto, una fisarmonica o un oud che suonano in sottofondo, un commento musicale latente che tende a sottolineare le esistenze “sradicate” dentro un’altra dimensione dove, in un istante ogni cosa può precipitare. Tocca in particolare ai Moresby, Port e Kit, e al loro matrimonio claudicante e verboso, dove parlano un sacco senza dirsi nulla. Lui, Pche nel suo passaporto alla voce professione ha lasciato un vuoto riesce ad ammetterlo, per quel che vale: “Credo che abbiamo paura tutti e due della stessa cosa. E per la stessa ragione. Non siamo mai riusciti, né tu né io, a immergerci nella vita fino in fondo. Ci teniamo aggrappati all’esterno con tutte le nostre forze, convinti che al prossimo scossone finiremo per cascar giù”. Le disavventure sembrano cercate con una insistenza, persino con noncuranza verso le usanze, le asperità del clima, del paesaggio e per le creature che lo popolano, forse un lascito del retaggio coloniale. Del resto sia Port che gli altri protagonisti hanno l’aria “di chi ha davanti a sé tutto il tempo del mondo, per qualsiasi cosa”. Quello che è comune a tutti è un’ambiguità di fondo: sembrano fuori posto, come se dovessero trovare qualcosa, proprio dove non c’è nulla. L’entità del territorio sahariano è qualcosa in più di uno sfondo e dell’ambientazione: è uno scenario vivo, multiforme, capace di influire in modo pesante sulle vite e sui percorsi delle persone che l’affrontano. Nella prima parte del tragitto Kit è contesa dal marito e dall’amico Tunner si riflette nella seconda, come un miraggio sulle dune, dove Kit è ancora prigioniera di un’altra triangolazione. Quando Port si ammala le condizioni diventano insostenibili: “E gli passò per la mente che una passeggiata attraverso la campagna era una sorta di epitome del passaggio attraverso la vita stessa. Non ti concedevi mai il tempo di assaporare i particolari; dicevi: un altro giorno, ma sempre con la segreta consapevolezza che ciascun giorno era unico e definitivo, che non vi sarebbe mai stato un ritorno, un’altra volta”. Città emergono dalla sabbia: Aïn Khorfa, Bounoura, El Gaa, Sbâ, ogni volta diverse e uguali, tappe che per Kit, una figura femminile enigmatica, sono altrettante prove di una mutazione. Se, all’inizio, “si trattava unicamente di resistere, di esserci” che suona un po’ come un presagio, la destinazione finale è drammatica. L’andamento del romanzo ricorda così l’istinto dei viaggiatori che tendono a compiere un cerchio, prima o poi e ci ricorda che “il deserto è un posto così grande, eppure niente va veramente perduto, mai”. Paul Bowles si mimetizza spesso e volentieri tra i suoi personaggi, condividendo “le assurde banalità che riempivano la giornata e una cosa seria come mettere parole sulla carta” e quel senso latente di tragedia, che prima di tutto interviene nelle relazioni. Il tè nel deserto è un romanzo che attrae e confonde le idee con i suoi panorami estremi: è torbido e sinuoso e attraverso i suoi tempi dilatati coinvolge i sensi nell’attraversare odori, rumori, sensazioni, silenzi e poi “soltanto oscurità. Notte assoluta”. Bon voyage.

mercoledì 10 settembre 2025

Joan Baez

Nel corso di una lunga lettera aperta a Leonard Cohen, Joan Baez gli chiede: “Siamo solo noi, Leonard, o siamo più persone alla volta?”. È una quesito che trova risposte in abbondanza nel corso di Quando vedi mia madre, chiedile di ballare. Le personalità multiple di Joan Baez sono per sua stessa ammissione “una comunità sempre crescente di esseri interiori” e affollano un viaggio nel tempo caotico e ballerino. Sarebbero anche un bel problema, da un punto di vista psicologico, ma lasciarle fluire in libertà è stato un approccio singolare, che però alla fine funziona. A partire dall’inizio, dai tributi alla madre (“C’è mia madre che versa il tè. Io respiro, l’aria entra, l’aria esce”), al padre, al figlio, alle dinamiche famigliari con piccoli ritratti, ricordi e fotografie d’epoca che cambiano forma con lo scorrere degli anni, in tutte le direzioni. I frammenti dell’infanzia hanno una loro tenerezza e sono svolti con genuina semplicità: tutto il linguaggio è elementare, folk, popolare, intuitivo, eppure denso e, a volte, inestricabile. In Paura scrive: “La vita sono solo secondi, dicono, uno dopo l’altro e l’altro ancora, e avanti così per sempre finché non si muore. Se è davvero così, perché non riempire ogni secondo di luce?”, e la risposta non soffia nel vento, ma negli interstizi di Quando vedi mia madre, chiedile di ballare. Una lunga ballata che si conclude proprio dicendo: “Si dice che lo spirito non abbia età, quando si risveglia al mutamento della sua condizione. Ma io credo che un’età ce l’abbia, quella di un momento preciso di mirabile occasione”. Le scritture di Joan Baez, frammenti letterari che non sono né poesia né narrativa, ma un po’ di una e dell’altra, sono come le sue canzoni, molto semplici e pratiche in superficie, e tormentate e profonde più ci si addentra. L’ossimoro di una “tranquilla incursione” in La lama del narciso e la definizione di “una serie di vivide immagini dipinte” si adattano benissimo, in particolare alle protagoniste femminili, “belle come il sole”: Vivian, Jasmine (“Tu fai un rutto e il mondo applaude), la magica Lily, Colleen e Pauline, in particolare, che sussurra ai serpenti a sonagli e condivide il sentiero con il puma (c’è spazio per tutti e due) e che aveva “piantato bocche di leone e papaveri per la bellezza e salvia e gelsomino per il celestiale profumo”. In mezzo a tanta grazia, lo sguardo di Joan Baez si sofferma a lungo a fissare la La grande onda di Kanagawa di Katsushika Hokusai o American Gothic di Grant Wood per poi descrivere il pellegrinaggio, voluto e dovuto, a Big Sur. Non c’è nulla di lineare, se non le forme degli omaggi che riportano inevitabilmente a un’età molto lontana, ormai irraggiungibile. Le celebrazioni di Jimi Hendrix (“Suonasti appena prima di me all’isola di Wight e in qualche modo riuscisti ad accendere gli animi. Io suonai nella tua scia che ancora balenava nei riflettori”), Leonard Cohen, Judy Collins e, inevitabilmente, il richiamo a tale Robert Zimmerman “figlio dagli occhi azzurri di Duluth” che “scribacchiava sogni pensati”, comunque “roba brillante”. Ogni riferimento, si sarà capito, non è casuale, così come per la sorella Mimi, già moglie di Richard Fariña, che completa le ricognizioni famigliari prima del ballo della madre da cui comincia e finisce tutto. Il suo è uno sforzo di memoria, non privo di nostalgia, che avvolge le parole seguendo l’istinto perché “la scrittura è come l’amore, non può essere forzata o muove in corso d’opera”. Quelle di Joan Baez sono “lezioni a impatto molto basso” che lei srotola un po’ a caso, in disordine, come se stesse camminando scalza, a occhi chiusi, come capitava allora con Jim, e Bob, e Judy e Leonard e Mimi e tutti insieme cantavano la stessa canzone, per sempre giovani.

lunedì 1 settembre 2025

James Lee Burke

Con James Lee Burke, la Louisiana è sempre un’esperienza nel tempo e nello spazio, anche filtrata attraverso le gradazioni di un Arcobaleno di vetro. Lo schema magari è noto e si è ripetuto negli anni e un paio di dozzine di romanzi, ma è anche vero che chi conosce le abitudini di Dave Robicheaux e di Clete Purcel non si aspetta nulla di differente, se non la consueta lotta senza esclusione di colpi contro antichi e nuovi nemici che sono sempre predatori del territorio, degli indifesi e degli innocenti, con un’innata estensione verso la sfera sessuale, in generale, e quella femminile, in questo caso specifico. Il groviglio che filtra dall’Arcobaleno di vetro comprende tutta una fitta serie di personaggi che lasciano un alone malefico per ogni passaggio che va ad aggiungersi alla quotidiana amministrazione di miscela di brutalità, indifferenza e crudeltà che Dave Robicheaux deve sopportare un giorno dopo l’altro da troppo tempo, tanto da confessarsi così, senza alcun pudore: “Nel mio lavoro c’erano momenti in cui avrei voluto scavare una buca nella terra, seppellire il mio scudo e strofinarmi la pelle con l’acqua ossigenata”. In Arcobaleno di vetro si chiamano Robert Weingart, Kermit Abelard, Herman Stanga, Layton Blanchet e in un modo o nell’altro nella gestazione dei loro sordidi intrighi hanno commesso l’errore di incrociare gli stessi sentieri di Streak e Clete che riescono a sopravvivere grazie alla convinzione che “quello che gli altri fanno o non fanno non è un fattore determinante. Noi non cessiamo di essere quello che siamo”. La separazione tra buoni e cattivi è tutta lì ed è già esplicita nella distinzione sul terreno, dove vivono Clete e Streak e dove dominano gli altri. Per loro, le strade, il cibo, il clima, i temporali, la pioggia, le albe e le notti che fioriscono nella scrittura di James Lee Burke, sono una componente irrinunciabile del paesaggio della Lousiana che ha angoli rappresentativi ovunque. Non fanno parte del bottino, e non lo devono diventare perché come spiega Robicheaux in particolare, c’è qualcosa di più: “respirai l’umida purezza dell’aria e l’odore di uova di pesce, di humus e di alberi bagnati nella palude. Niente di tutto ciò costava cinque centesimi, e questo era un pensiero che speravo di tenere stampato in testa finché sarei vissuto”. Il problema è che nei riflessi dell’ Arcobaleno di vetro vengono messi aleggiano attorno a Streak e Clete segnali che non vogliono (o meglio: non vorrebbero) cogliere, anche se ne hanno chiaramente sentore perché sanno che “la memoria e la presenza sono inestricabilmente connesse e non dovrebbero mai essere considerate entità distinte”. Tutto è reso ancora più complicato dal fatto che Alafair, la figlia adottiva di Robicheaux, ormai diventata scrittrice, è invischiata in una relazione ambigua e rischiosa che mette a dura prova anche i legami famigliari. Del resto il mondo di Clete e Streak è foriero di contraddizioni: l’elemento stesso della violenza (spesso risolutoria) è una caratteristica simbolica ed emblematica, l’elemento soprannaturale anche se limitato a un’allucinazione visiva, un battello che appare nei momenti più critici, è significativo, e i continui contrasti tra i Bobbsey Twins sono un po’ il pepe, il sale e il tabasco in abbondanza sull’Arcobaleno di vetro. Più che mai inseparabili, sono costretti a ricorrere a tutto il loro arsenale, ma va dato atto a James Lee Burke, che le armi da fuoco (e qui si spara un bel po’) restano l’extrema ratio, prima vengono comunque i tentativi di comprendere, una volta di più, cosa sta succedendo nei confini della Louisiana. I limiti, quelli veri, sono molto più diffusi, come ben sa Clete, e lo esprime come meglio non si può: “Hai mai conosciuto un demente che fosse diverso? Hanno saltato l’addestramento all’uso del bagno e all’allacciatura delle scarpe, ma sono esperti di tutto, dalla chirurgia cerebrale alla gestione della Casa Bianca”. Questo è il sottinteso dell’Arcobaleno di vetro, poi la verità è che non vorremmo essere Clete Purcel, ma ci piacerebbe un sacco avere un patio come il suo dove rifugiarci, di tanto in tanto.

lunedì 25 agosto 2025

John McMillian

Al di là della somma di affinità e divergenze, contrapposizioni e complicità, l’affaire Beatles vs Stones si protrae, senza soluzione apparente, da decenni. Il tentativo di ricondurre l’evoluzione parallela e spesso contigua dei due gruppi in un unico, effervescente scenario è la componente migliore e più efficace del racconto di John McMillian, che è un professore universitario e nell’occasione sa essere scorrevole e dettagliato nello stesso tempo. L’adesione allo schema della dicotomia è scettica e con un meticoloso lavoro è andato completando un quadro riassuntivo e credibile di cosa hanno rappresentato Beatles e Rolling Stones nel palcoscenico pubblico delle strade di Londra. La prima mossa sulla scacchiera tocca ai Beatles che “iniziarono a incidere canzoni che mettevano alla prova il loro pubblico con parole, suoni, atteggiamenti e immagini che uscivano dal seminato, che lasciavano disorientati. E in questo modo, contribuirono a trasformare il pop in arte. Aprirono una strada nuova per la musica pop ed ebbero un effetto galvanizzante su tutti i loro contemporanei”. Su questo non c’è il minimo dubbio e John McMillian segue i personaggi che hanno affollato lo spazio aperto dai Beatles e allargato dagli Stones, mette a confronto due stili che hanno molte radici in comune e raccoglie anche le relative leggende, ma si assicura di tenere conto di ciò che è stato inventato o millantato. Il rapporto viene scandagliato in tutti i particolari, comprensivi dei luoghi comuni e degli stereotipi che li riguardano: la vasta bibliografia disponibile è stata la fonte principale, poi John McMillian ci ha aggiunto i suoi collegamenti e il suo punto di vista perché “in un certo senso, l’altezzosità bohémien coltivata dagli Stones era artefatta quanto l’immagine scanzonata e ottimista proiettata dai Beatles”. Di episodi e aneddoti ce ne sono un’infinità e la cernita è, se non altro, molto puntuale. Le connessioni artistiche note e meno note, i commenti sulle rispettive ambizioni, tutta un’era che andava di fretta e che ruotava proprio attorno ai Beatles e agli Stones sono riproposte con cura, compresi i ruoli di Brian Epstein e Andrew Loog Oldham, nel costruire le immagini dei gruppi, fino a spiegare con chiarezza che “gli Stones erano ammirati per il modo con cui affrontavano apertamente temi come il sesso, il desiderio, l’ansia, il consumismo, la depressione e la rispettabilità borghese, mentre i Beatles erano accusati di aver imbrigliato lo spirito bohémien. Rispettavano le convenzioni sociali”. La differenza non è mai stata così netta e bisogna dare atto a John McMillian di aver trovato un senso e un equilibrio nel comporre il dilemma concludendo che “né i Beatles né gli Stones, però, erano particolarmente radicali. Entrambe le band, con il loro immenso talento, avevano contribuito a costruire immagini della cultura giovanile che generavano grande fiducia nei propri mezzi, consapevolezza di sé e un’energia libidica, e questo aveva stimolato dei cambiamenti straordinari”. La metamorfosi dei Beatles dai teppisti rock’n’roll di Amburgo alle figure edulcorate e immacolate dei baronetti e degli Stones dai posati ragazzi della middle class alle pose selvagge degli “street fighting man” sono il pepe e il sale sparsi nella Swinging London e John McMillian riesce a rendere l’atmosfera, mantenendo un tono adeguato, non accademico o specialistico, assecondando gli sviluppi nelle relative discografie e il crepuscolo di un’era con le morti di Brian Epstein e di Brian Jones, Altamont, il disastro della Apple e lo scioglimento dei Fab Four. Qui conta l’avvento di Allen Klein, manager prima negli Stones e poi nei Beatles, un personaggio che da solo ha mutato la storia di entrambe le band e ha contribuito non poco a deviare il rapporto tra l’industria discografica e il rock’n’roll che è andato sfumandosi in una passiva accettazione di tutto ciò che passa il convento. Del resto il suo modus operandi di Allen Klein era questo: “Due parti firmano un contratto in buona fede, nella speranza che esprima quello che tutte e due vogliono da una relazione. Ma le situazioni cambiano e i contratti vengono rinegoziati”. Da accordi e note a percentuali e dividendi il passo è breve, e questa è la vera fine delle intersezioni dei Beatles vs Stones. Su quello che sono diventati in seguito gli Stones John McMillian, è piuttosto frettoloso ed evasivo, ma qualche ragione ce l’ha, in effetti, perché si tratta comunque di altri tempi e di tutta un’altra storia. Qualche svista (tra cui Keith Moon che diventa il chitarrista degli Who: certi dettagli non li insegnano all’università) è relativa nel contesto generale che ha le proprietà, ormai rare, della sintesi e con un bel finale dove ricorda che “d’altra parte, non c’è niente come la musica per fare un tuffo nel passato, per evocare la nostalgia, e questo può essere una cosa potente, meravigliosa”, e naturalmente vale per i Beatles e così per gli Stones.

lunedì 18 agosto 2025

George Saunders

La deformazione del linguaggio, e come la sua manipolazione possa determinare le libertà individuali, è ancora una volta il tema ricorrente nei racconti di Giorno di liberazione. George Saunders è sempre spiazzante, e di sicuro non è una lettura consolatoria: è uno dei pochi scrittori che hanno il coraggio, per non dire la temerarietà, di tuffarsi nel caos moderno e di uscirne trionfanti con una narrazione che è fatta di un ritmo implacabile e di una visione distopica di una realtà che somiglia molto alla nostra, ormai diventata un pessimo film dell’orrore di serie b. A partire da Giorno della liberazione, un racconto surreale che fonde molte idiosincrasie attuali con la rivisitazione della cronaca del generale Custer e di Little Big Horn. Sorprendente, fin da quando i protagonisti si accorgono che “proprio mentre siamo parte della storia, siamo in qualche modo persi nella storia, ci rendiamo conto di quanto sia fantastica”. La loro condizione di osservatori impotenti è, a ben guardare, molto simile alla nostra, quando George Saunders scrive: “Ora ci vengono forniti i fatti. Fatti veri. Che sono utili. Per costruire una struttura avvincente. È come camminare in un corridoio stretto, compressi fra due pareti grigie di fatti. Come arrancare in un deserto ed essere colti all’improvviso da una pioggerellina di conoscenza composta proprio dai dettagli che desideravi senza rendertene conto”. L’alternativa a un vocabolario forbito e ricercato è elementare: “Altrimenti parliamo così. Come vi sto parlando io adesso. In modo semplice, poco ispirato, senza alcuna bellezza”. La costruzione dei racconti è imprevedibile, come se le deviazioni repentine del linguaggio dominassero in ogni occasione con la suddivisione dei ruoli in Elliott Spencer, dove un’istituzione sovrintende a un livello articolato e superiore delle comunicazioni, anche criptiche, volendo. Le attrazioni linguistiche sono un aspetto determinante e del resto la scrittura di George Saunders fa riferimento proprio a quello: tratta ogni short story come un mondo a parte, dove può succedere di tutto e, di solito, succede. L’incessante lavorio sulle parole si sviluppa attraverso l’uso delle maiuscole, degli spazi nella pagina e della sottile perversione per i luoghi comuni che George Saunders, come succede in Festa della mamma, dove Alma e Debi, in un sovrapporsi di chiacchiere tra rivali ripercorrono una vita di diatribe e rimpianti. Le contraddizioni che implicano i rapporti tra le persone sono di nuovo al centro dell’attenzione in La mia casa, un racconto enigmatico e struggente nello stesso tempo, e L’audace mamma d’azione. In questi casi, il cambio di registro è evidente, ma non insolito: se gran parte delle short story di Giorno di liberazione sono un’esperienza linguistica penetrante con raffiche di iperboli, Lettera d’amore, è un toccante dialogo epistolare (dal nonno al nipote) sull’America all’inizio del ventunesimo secolo, che si snoda riflettendo “ancora in quell’epoca, non in questa” per poi “trovarsi, di nuovo, in un tempo e in un luogo in cui agire non è possibile”. La vita quotidiana torna protagonista in Una cosa di lavoro, con una ricostruzione assurda ed estenuate del tran tran in ufficio e in Scricciolo, dove in un negozio via via nasce una relazione e poi un matrimonio. Tra le funamboliche piroette, va ricordato anche Ghoul, che riprende una delle ossessioni predilette di George Saunders, i parchi a tema (e, a sua volta, è indirettamente collegato a Giorno della liberazione): una sorta di regime a base di ruoli, maschere, costumi e allarmi (e condanne a morte inflitte a calci), allucinante e inquietante, e permeato dalla sensazione che “sembra tutto perfetto. Ma non succederà”. E, comunque, George Saunders sembra concludere con fare sornione perché “l’intenzione è quella. Fare quello che sappiamo fare, e divertirci”. Notevole.

venerdì 8 agosto 2025

Allan Gurganus

Questa riorganizzazione delle short story di Allan Gurganus ha un senso, anche se Uno di quelli, Beata rassicurazione ed Eroismo minore erano già andati a comporre Piccoli eroi. La ristrutturazione in Respiro li recupera tutti e ci aggiunge Respiro (1975), Condoglianze a tutti noi (1975) e L’arte per adulti (1980). Falls, da qualche parte nel North Carolina resta la cornice ideale e il territorio prediletto da Allan Gurganus così come, all’interno dell’ipotetico perimetro cittadino, le osservazioni delle dinamiche famigliari nell’arco delle scansioni temporali, dall’infanzia (un periodo su cui torna spesso e volentieri) all’età matura, con proprietà stilistiche che si adattano alla perfezione alle mutazioni esistenziali e cronologiche dei personaggi, sia utilizzando la prima persona (la soluzione preferita) che altre prospettive. La rilettura di Uno di quelli o di Eroismo minore conduce giusto in quella direzione ed è proprio laggiù, come scrive in Beata rassicurazione, che “la vita affiorava sotto la pelle”. Personaggi e situazioni ricorrono a Falls come se ci fosse un continuum, e così anche in Respiro, il racconto che offre il titolo alla raccolta che è esemplare dell’approccio di Allan Gurganus. Una scrittura raffinata che sa leggere le mutevoli forme delle relazioni con estrema precisione, ma anche con particolare grazia e con un senso specifico del dettaglio che unisce i protagonisti, ne riveste l’identità e distingue tutti i principali passaggi dei racconti. Il modus operandi di Allan Gurganus è un lavorio di miniatura che, all’interno di un’attenta visione panoramica, non si lascia sfuggire nulla. Ogni elemento trova la sua collocazione nel corso del susseguirsi dei singoli momenti salienti delle storie. In Respiro è più che evidente che mai nel contesto del contrastato rapporto lungo un’intera esistenza tra i fratelli Bryan e Bradley, con le ombre dei genitori sullo sfondo. Respiro è un po’ la somma delle caratteristiche di Allan Gurganus e si presenta come un notevole biglietto da visita. Non di meno vale L’arte per adulti che ricorda come “tutti si accorgono della grazia, ma saper apprezzare la goffaggine, be’, quello richiede un vero talento”. Il laboratorio umano è sempre quello: “È una piccola città, Falls. Tutti vedono tutto, o quasi. Quindi, se la fai franca lo vieni a sapere di sicuro, e il tuo è un successo decisamente più prezioso. C’è chi dice che in fondo il peccato è vecchio come il mondo. Ma non per me. Se non è scandaloso, allora non vale la pena perderci troppo tempo”. Un incontro che si sviluppa per gradi, con Allan Gurganus che lascia in sospeso la conclusione, tenendo aperte tutte le possibilità, sapendo che “ogni autentico piacere è un segreto”. Arrivati a quel punto, aveva comunque disseminato indizi in abbondanza per illustrare L’arte per adulti, titolo quanto mai appropriato. La vera eccezione è Condoglianze a tutti noi che sposta in modo significativo, ed estremo, i soggetti e l’ambientazione voluti da Allan Gurganus. Un salto radicale: Condoglianze a tutti noi segue le vicissitudini di una comitiva di turisti americani in Africa, prima in Egitto, poi in un non identificato paese dove è in corso una violenta sommossa. Siamo molto lontani dall’emblematico tran tran di Falls, con i piccoli traguardi o i fallimenti di una comunità. Lo scenario africano è imprevedibile: le persone diventano una massa incontrollabile, i turisti trovano rifugio in un albergo, ma due di loro, marito e moglie si attardano per strada per fotografare i manifestanti e restano uccisi mentre i compagni di viaggio osservano, inermi e impotenti, dalle finestre delle loro camere. Anche l’attenzione di Allan Gurganus segue un’altra definizione, prima assecondando lo sguardo delle vittime, e poi da quello degli altri viaggiatori, attoniti e increduli. Come se fosse una videocamera impazzita, e invece è una lettera scritta con il cuore in mano.

lunedì 4 agosto 2025

Stephen King

Leggere Stephen King ormai è un po’ come trovarsi in casa a occhi chiusi: sappiamo dove ci siamo, ma nel buio non mancano le sorprese. In Never Flinch funziona proprio così: c’è la solita, meticolosa costruzione con i personaggi immersi nel loro milieu e qui si comincia già con vecchie conoscenze, a partire da Holly Gibney, che ritroviamo con l’intero bagaglio di idiosincrasie, problemi di autostima e grandi intuizioni, ed è facile immaginare che la rivedremo ancora in un futuro non lontano. È accompagnata da una galleria impressionante di personaggi che arrivano al centro dell’attenzione uno dopo l’altro, a partire da un misterioso serial killer che colpisce a caso ed è particolarmente deviato, visto che secondo Holly, “è pericoloso, perché è convinto di essere sano di mente”. Questo vale per tutti i protagonisti di Never Flinch che, in un modo o nell’altro, hanno un coro di voci che parlano nella testa. Anche Kate McKay, scrittrice combattiva e paladina dei diritti delle donne, e la sua assistente, sentono la necessità di stare in prima linea, nonostante i rischi e le minacce che le condurranno a richiedere l’aiuto di Holly, nell’inedita veste di guardia del corpo. Siamo solo all’inizio e Stephen King si concede tutto quello che si può concedere (e ci mancherebbe altro), ovvero molto mestiere nel destreggiarsi tra i temi ricorrenti (il doppio, soprattutto) e i numerosi cliché (i nomi troncati, per esempio, o le degustazioni nei pasti comandati) che sono quello che sono eppure, o forse proprio per quello, hanno un loro modo di incantare ancora una volta il lettore. Tutte le storie convergono verso il concerto di Sista Bessie, una cantante che a sua volta avrà un ruolo non indifferente, e Stephen King si limita a seguire i movimenti dei personaggi che sono guidati da motivazioni incrollabili, ma ambigue. Sono tutti fuori posto come se le loro missioni o i loro destini fossero annodati da fili invisibili, ed è vero, “come dicono in tv: è complicato” da spiegare. Non di meno precipitano uno verso l’altro a gran velocità e nel bel mezzo di Never Flinch, Stephen King si concede anche il lusso di rivelare chi è l’assassino che uccide gli innocenti “per procura”. Un tocco narrativo che, al primo impatto, pare insolito, se non affrettato, ma che poi, vista la grande corsa verso il finale, è una specie di rampa di lancio. Holly è coinvolta per vie trasversali, ma alla resa dei conti (arriva tardi, ma ci arriva) si ritrova con Barbara e Jerome, quasi un affare di famiglia. Del resto Never Flinch è un romanzo piuttosto affollato e per niente lineare, con uno sviluppo che non concede tregua e in questo bisogna dare atto a Stephen King di non aver mai perso l’abilità di tenere incollato il lettore alle pagine, se non altro per vedere come va a finire. E, a proposito di luoghi comuni, il consueto e caotico epilogo parte da un campo da baseball e non potrebbe esserci cornice migliore. Alle sue coordinate, nel definire l’ambiente, il mood e in generale le dinamiche di Never Flinch si aggiungono le citazioni di Stephen King, da Psycho agli inevitabili richiami di The Outsider fino alla fittissima playlist composta da Al Green, Blind Boys of Alabama, Mavis Staples (la principale fonte d’ispirazione per Sista Bessie), A Change Is Gonna Come di Sam Cooke, Wilson Pickett, Jackie Wilson, Marvin Gaye con I Heard It Through The Gravepine, Boogie Shoes della KC & The Sunshine Band, e l’immancabile Ray Charles e così, anche rispetto alla “sweet soul music”, Stephen King non sbaglia indirizzo.

mercoledì 23 luglio 2025

Nicholas Rombes

Fedele al titolo e rispecchiando la forma delle canzoni e in fondo l’essenza dei Ramones queste cento pagine riescono nell’impresa di raccontarli con la stessa immediatezza. Forse non c’è modo migliore: il loro è un immaginario compresso in ritmo e velocità, con componenti stilistiche ridotte al midollo, nessuna concessione fuori dai propri limiti e una concentrazione univoca e feroce. Concentrandosi in particolare sull’epocale album d’esordio e con il felice (e ormai raro) dono della sintesi, Nicholas Rombes trova il modo di coniugare tutti gli elementi distintivi della storia dei Ramones partendo da un’attitudine singolare e in gran parte ancora incompresa. La descrizione iniziale è esplicita e diretta: “Erano forse il più puro e il più geniale dei gruppi punk spersonalizzati: si presentavano con una divisa immutabile, condividevano lo stesso cognome, e facevano musica che riarticolava più e più volte una sola idea”. Subito dopo, la sua analisi aiuta a collocarli con un grado di precisione che merita tutta l’attenzione possibile: “In America c’è forte scetticismo e diffidenza nei confronti di qualsiasi forma artistica e culturale che non si evolve, che non cresce. Non esiste critica più grave dell’accusa di ripetere se stessi. Eppure lo scopo del punk era proprio la ripetizione: la sua arte stava nel rifiuto dell’elaborazione. E questo non è mai così evidente quanto nel primo album dei Ramones, la cui simmetria tremenda e inflessibile annunciava l’arrivo di un suono talmente puro da non avere bisogno di cambiamento”. Per quanto superficiale, ristretta e monocorde, almeno in apparenza, l’espressione dei Ramones condensa un mucchio di sollecitazioni, prima tra tutte, per quanto a livello subliminale, la dottrina usa e getta di Andy Warhol e, per naturale estensione, di un’intera città. Lo notava soprattutto Dick Hebdige: “I gruppi punk di New York avevano assemblato un’estetica consapevolmente profana ed estrema a partire da una varietà di fonti artistiche affermate (dall’avanguardia letteraria al cinema underground)”. Da quella posizione privilegiata, Nicholas Rombes concentra sui Ramones una rivisitazione del significato primo e ultimo del punk che “ha reso famoso il gesto di mettere mano a una chitarra o a una penna per affrontare la cultura, non per distruggerla, ma per trasformarla” e, accelerando senza timori reverenziali, “aveva riportato nel sistema una sensazione di divertimento e pericolo”, e questo è tutto. Sì, una soluzione pronta, da consumare subito, senza controindicazioni, compreso il suo destino effimero perché, come scrive Nicholas Rombes, “in realtà, il punk funzionava meglio quando era qualcosa di sfuggente, intravisto con la coda dell’occhio. Era destinato al fallimento, e qui stava la sua bellezza. Non poteva durare”. Se è vero da un punto di vista estetico, bisogna aggiungere che la scintilla dei Ramones e del punk viene però inserita in una prospettiva più ampia, sia in direzione del futuro, sia andando a ritroso nel tempo visto che, secondo Rombes, “la filosofia del fai-da-te fa parte della tradizione americana, dall’epoca della Guerra d’Indipendenza all’appello alla fiducia in se stessi di Ralph Waldo Emerson”. E comunque i Ramones (indispensabili oggi più che mai) non hanno fatto tutto da soli e Nicholas Rombes ricorda nella giusta misura il ruolo di cronisti musicali che per un brevissimo momento parvero coltivare ambizioni linguistiche e letterarie un po’ più elevate rispetto alle paludi dell’underground. Uno di loro, Danny Fields, un testimone sul campo molto affidabile, scrisse: “Le canzoni erano brevi. Si capiva nel giro di cinque secondi che cosa stava succedendo. Non c’era bisogno di analizzare e/o stabilire cosa si vedeva o si sentiva. Era tutto lì”. Breve, intenso ed efficace, proprio come i Ramones.

martedì 22 luglio 2025

Daniel Mark Epstein

Un po’ di tempo fa Dylan ha detto: “Se una canzone ti commuove, questo è tutto ciò che è importante. Non devo sapere cosa significa una canzone. Ho scritto di tutto nelle mie canzoni. E non ho intenzione di preoccuparmi di cosa significhi”. La presa di posizione è più che legittima, così come vale comunque la pena dare una sbirciatina dietro l’angolo e provare a cogliere gli intensi riflessi di quello che Daniel Mark Epstein definisce in modo appropriato “un poeta e una sorta di profeta, uno del quale potevi essere sicuro che esprimesse sinceramente le proprie percezioni. Vedeva in profondità nella storia e nel cuore umano. Il poeta era un’affidabile entità morale, incorruttibile in questo senso”. Per provare a raccontare una volta di più la figura di Dylan, con partecipazione ma senza ossequi di sorta,  Daniel Mark Epstein opta per una biografia non convenzionale (che, tra l’altro, non procede in senso cronologico) e alterna ricordi e sensazioni individuali a cronache e letture storiche collettive e diffuse. Messa da parte l’urgenza nozionistica o rivalutata da altri autori (Shelton, Scaduto, Sounes) con uno spirito più libero e informale, la “ballata” di Bob Dylan trova un andamento caratteristico con ampie sequenze dedicate all’analisi delle canzoni (tra cui vengono messe in risalto Tangled Up in Blue, Jokerman, Mississippi), alla realizzazione degli album (con un notevole spazio dedicato, per esempio, a Time Out of Mind e a Love and Theft), ai rapporti e al ruolo dei musicisti coinvolti e ai lati esistenziali e caratteriali, compresi quelli più sgraditi e oscuri. Un certo grado di disordine è da mettere in conto perché Daniel Mark Epstein, pur riportando con accuratezza fatti & storie, ritorna comunque a concentrarsi sulle origini e sul destino delle canzoni. Questo è propiziato dalla vocazione di Dylan che, fin dalla sua apparizione nelle strade di New York “chiedeva insistentemente, otteneva in prestito, o rubava registrazioni, memorizzando canzoni. Creò nella sua testa una collezione più fantastica di qualsiasi altra esistente su un acetato o vinile perché le canzoni erano tutte vive e collegate tra di loro, immediatamente disponibili per intero o in frammenti, trasformandosi, dividendosi e combinandosi incessantemente nell’immaginazione del poeta”. Mentre sfilano in ordine sparso Pete Seeger, Phil Ochs, Joan Baez e la Band, Allen Ginsberg o i Grateful Dead, attraversando stati d’animo e umori a volte difficili, spesso incomprensibili, Dylan pare estraneo, se non proprio alieno alle faccende terrestri e il motivo lo spiega con un interessante paradosso: “Se uno scrittore ha qualcosa da dire deve dirlo a tutti i costi. Il mondo è reale. La fantasia è diventata il mondo reale, che ce ne rendiamo conto o no”. Suo coetaneo (o quasi), Daniel Mark Epstein pare assecondarlo, mantenendosi in bilico, tra una visione intima ed emotiva, comprensiva di un concerto del Never Ending Tour visto in compagnia del figlio, la descrizione dei complessi meccanismi che regolano la vita in una rock’n’roll, con l’ampio e meritatissimo spazio dedicato al batterista David Kemper e al chitarrista Larry Campbell e la necessità di tornare a ribadire che “il linguaggio della canzone è una forza di cui tenere conto”. Le divagazioni, frequenti e ricche di suggestioni, sono parte integrante di una prospettiva anomala e aggiornabile, che segue un itinerario tutto suo, senza la volontà di esaurire a tutti i costi ogni singolo aspetto personale e artistico (che resta un’impresa improbabile) e di ritornare spesso e volentieri all’origine perché come dice Jim Dickinson: “Sono convinto che per lui le canzoni siano tutto”. Deve essere proprio così, e nel nome di Woody Guthrie, Hank Williams, Johnny Cash ed Elvis, la “ballata” di Bob Dylan resta anche qui la più luminosa.

lunedì 14 luglio 2025

Oakley Hall

Warlock è una città di frontiera dove il mantenimento dell’ordine è una scommessa continua, se non proprio un azzardo. In “un paese in cui bastano venti dollari per diventare leggenda comprando una pistola in un’armeria qualsiasi” per l’amministrazione della giustizia e la difficile corrispondenza rispetto alle norme e alla rettitudine non erano sufficienti gli sceriffi, locali ed eletti. Il governo americano inviava i marshal, agenti federali con un ampio mandato, così come lo esprime Clay Blaisedell, protagonista del corposo romanzo di Oakley Hall. Ricopre il suo ruolo con sicurezza, è un tiratore efficace (fin troppo), una dote non relativa laggiù dove la vita quotidiana si svolge nelle strade e le regole sono dettate dalle Colt. Le sue sono intarsiate d’oro e rispecchiano il concetto essenziale che “se in un posto c’è un solo uomo a rappresentare la legge, quell’uomo va rispettato altrimenti non esiste più legge”. Il suo servizio è sottoposto al giudizio e al controllo di un comitato civico, di conseguenza “in città infuriano le discussioni, si fanno ipotesi, si respira un senso di atterrita attesa, anche se sono in molti a bramare una resa la cui forma ideale può essere soltanto quella di un duello in strada”. Il marshal è al centro di tutte le tensioni e di scontri ce ne saranno parecchi perché “Warlock era un ribollire di congetture” e si susseguono assalti alle diligenze e raggruppamenti di posse, giudici ubriachi e polvere nell’aria, folle inferocite e risse nei saloon finché il clima diventa irrespirabile perché “non c’è stata nessuna catarsi, c’è stato soltanto disgusto e, d’un tratto, la paura di ognuno di guardare in faccia la persona che aveva accanto”. La posizione di Warlock è fragile: è uno dei vertici di un triangolo che comprende il tribunale della contea di Bright’s City da cui dipende (compresa la guarnigione dell’esercito al comando del generale Peach) e  San Pablo, che è la residenza di una congrega di fuorilegge. Le distanze non mitigano neanche un po’ le molteplici ragioni di conflitto e quando i minatori scioperano per le sacrosanti rivendicazioni salariali e per migliorare le condizioni di lavoro, i proprietari prima si rivolgono a un manipolo di furfanti e, infine, alla cavalleria. Warlock si ribella con generosità, con un contributo particolarmente coraggioso delle donne, ma l’intervento dell’esercito, come è successo spesso e volentieri nella storia americana, pone fine alle intemperanze e, per estensione, all’incarico di Clay Blaisedell. Il suo commiato resta un monito lapidario: “Un uomo deve essere fiero, ma deve avere una ragione per esserlo” e, come diretta e insindacabile conseguenza, il suo valore “consiste anche nel capire quando è il momento di levare le tende”. A Warlock le parole hanno un peso specifico e Oakley Hall, sapendo benissimo che “l’uomo è un animale che si distingue dalle altre bestie proprio per la sua capacità di creare cose che non esistono”, lascia che ognuno si esprima a modo suo. Con somma precisione, e nella sua nebbia alcolica il giudice sentenzia: “Un uomo risponde di quel che è”. La facoltà di esprimersi è concessa persino ad Abe McQuown, il capostipite dei banditi, che dice: “Credevo che prima o poi dovessimo accettare che le cose cambiano, ma ho capito che nulla è cambiato. È sempre lo stesso, cane mangia cane e non c’è giustizia se non quella che ti fai da te”. Oakley Hall inserisce anche un punto di vista alternativo, attraverso l’epistolario di Henry Holmes Goodpasture, che è lucido nel decifrare le turbolenze di Warlock: “Devo ovviamente accettare il fatto che l’opinione pubblica non è così unanime come mi piacerebbe credere. Ci sono delle controversie, ma come troppo spesso capita, siamo più inclini a concentrarci sugli uomini in quanto simboli che non sulle controversie in sé”. E per il vicesceriffo Gannon è tutto molto semplice: “Ci sono un momento e un luogo in cui bisogna andare in scena, solo questo”. Come se stesse dirigendo il grande coro di una tragedia, Oakley Hall trasforma ogni luogo comune del West in un’imponente e accurata realtà linguistica, ricordandoci che “in tutta Warlock era la stessa storia, la gente non faceva che parlare, cambiando versione, aggiustando le cose o alternandola a seconda delle convenienze o, meglio ancora, trasformandole in qualcosa da poter accettare, con rabbia o sconcerto o tristezza”. Insuperabile, come una scala reale al tavolo del poker.

giovedì 10 luglio 2025

Diane di Prima

Il linguaggio è crudo, spontaneo, molto diretto: Diane di Prima celebra le manifestazioni erotiche con tutto il parossismo possibile, eguagliando nelle esperienze sul campo Opus Pistorum di Henry Miller, però va detto che le umidicce descrizioni anatomiche e le geometrie degli amplessi sono le parti che nelle Memorie di una beatnik scorrono via senza colpo ferire. Il sesso in tutte le sue declinazioni appare come un’instabile forma di comunicazione, soggetta a sbalzi d’umore e variazioni sul tema del tutto casuali: Diane di Prima elenca posizioni e performance senza alcun pudore e, sì, all’epoca erano scandalose, ma di tempo ne è passato un bel po’ e nelle Memorie di una beatnik è molto più interessante scoprire le radici della vita bohémienne, il paesaggio urbano del Lower East Side, le ambizioni e la fame di giovani anime ribelli, gli affitti da pagare, i miseri pasti, la sopravvivenza nel clima gelido di New York. Soprattutto la scelta della marginalità, di non assecondare regole precostituite e inamovibili, in favore di velleità artistiche, ancora molto nebulose. Le origini spontanee, la povertà e la promiscuità e la scintilla della scrittura inserita in un contesto di appetiti feroci, e non soltanto di cibo, ma anche di indipendenza e libertà, soprattutto quest’ultima, vanno cercate in una condizione estrema e spesso miserevole, compresa la digressione della vita in campagna, che Diane di Prima condivide con tre uomini. Ritornata nella metropoli, nega ogni legame con la generazione precedente, che “era basato su bugie e sotterfugi”, e poi lei e gli amici che vanno e vengono sono alieni e refrattari alla frenesia di New York si convincono che devono salvaguardare a tutti i costi la loro “integrità (ci volle un sacco di tempo e di energia per definire il concetto di svendersi) e di mantenerci cool”. Con il risultato di vivere un isolamento “totale e impenetrabile” ed è quasi commovente la scoperta dell’esistenza di altri come loro. L’incontro con Allen Ginsberg propiziato dall’apparizione di Urlo è rocambolesco, e si trasforma nell’ennesima prestazione di amore libero & comunitario. Ricorda Diane di Prima: “Sapevo che questo Allen Ginsberg, chiunque fosse, aveva spianato la strada a tutti noi, a tutte quelle poche centinaia di persone che eravamo, semplicemente facendo pubblicare il suo libro. Non avevo ancora idea di cosa significasse, né di quanto ci avrebbe portato lontano”. La sua apparizione è una svolta epocale perché “se c’era un Allen, ne conseguiva che ce ne dovevano essere altri, altre persone, oltre ai miei pochi amici, che scrivevano quello che dicevano e quello che sentivano dire, e che vivevano, anche se in modo oscuro e con vergogna, quello che sapevano, nascosti qui e là come noi; e ora, improvvisamente, queste persone stavano per parlare a voce alta”. La gioia dell’incontro è limitata, l’atmosfera è quella di una vigilia di terrore: “Aspettando con una lievissima amarezza che tutto finisse, che l’era dell’uomo giungesse alla sua conclusione in una vampata radioattiva, adesso si sarebbero fatti avanti e avrebbero detto la loro. Non li avrebbero uditi in molti, ma loro finalmente si sarebbero uditi a vicenda”. A modo tutto suo, Memorie di una beatnik è ancora oggi una testimonianza vivida e validissima dell’emersione della Beat Generation celebrata con un’orgia, a cui Diane di Prima si dedica con un partner d’eccezione, ovvero Jack Kerouac. Non manca nessun dettaglio, ma sono soltanto momenti impalpabili e la postfazione del 1987, molti anni dopo, fa un po’ la cernita tra quello che era reale e ciò che è diventato leggenda. Sono ricordi che si trasformano e si plasmano perché “le persone recitavano se stesse”, poi Diane di Prima si trasferisce in California, con un figlio e l’FBI alla porta, i tempi stavano cambiando e di sicuro non in meglio, sia dal punto di vista personale, sia da quello collettivo, e si ritrova “a scrivere per pagare l’affitto e le vettovaglie”. Memorie di una beatnik nasce così e Diane di Prima racconta: “Mentre scrivevo, ascoltavo e riascoltavo Bird, o Clifford Brown, o Walking di Miles, e mi tuffavo in ricordi minuscoli e perfetti di stanze, e di scene, e di persone dimenticate da lungo tempo; e questo naturalmente è uno dei piaceri di chi scrive prosa, un piacere che stavo gustando per la prima volta”, e, in risposta alle insistente richieste di Maurice Girodias, editore scaltro e visionario, “inventavo strane angolazioni di corpi, o curiosi accostamenti di esseri umani, e ce li ficcavo dentro”, e, in fondo, il doppio senso pare molto più che naturale.

mercoledì 2 luglio 2025

Lou Reed

Tra i ricordi collezionati per Il mio Tai Chi, spicca quello di Fernando Saunders, bassista che cominciava la collaborazione di Lou Reed nell’autunno 1981 con la registrazione di The Blue Mask: “Penso che quando l’ho conosciuto, Lou avesse dei demoni, c’entrava l’alcol e roba del genere. Ha smesso di bere proprio quando l’ho conosciuto. Proprio poco prima che ci incontrassimo. Mi parlò di tutta la faccenda. Sai, Lou faceva sempre battute, anche sulle cose peggiori. Quando ci siamo conosciuti, parlava spesso con me della vita. Immagino che avesse bisogno di confidare queste cose a qualcuno”. È il momento in cui tutte le maschere sono cadute. L’inversione di marcia è radicale, almeno quanto gli oltraggi che l’hanno preceduta. La questione è semplice, secondo Lou Reed: “Sono molto hardcore. Seguo la palla che rimbalza ovunque vada, e non mi interessa”. In quel momento si trattava di scegliere la sopravvivenza e le arti marziali hanno rappresentato l’occasione per superare gli anni pericolosamente vissuti “sull’altro lato”. Lou Reed: “Alcuni dei miei interessi sono piuttosto scellerati. Avevo in mente cosa volevo, ma non sapevo bene come ottenerlo. Conoscevo tutte le cose che non bisognerebbe fare, ma non quelle che si dovrebbero fare”. Il nuovo corso comprende l’appiglio al Tai Chi come espressione di una disciplina indispensabile a contenere i danni ed è allora che diventa uno strumento di ricerca, un modo per ritrovare un centro permanente di sobrietà e stabilità, un’ossessione senza controindicazioni. New York, sullo sfondo. Dal tetto della casa di Lou Reed si vede l’Hudson. Lui pratica tutti i giorni e l’assiduità della preparazione è segno di una decisione e una fede rinnovate. Il suo approccio è unilaterale e non nasconde l’idea di ristabilire una connessione con il fisico segnato dagli abusi e dalle dipendenze. Non è facile perché, proprio come dice Lou Reed: “Siamo un corpo, un grande tendine. Dobbiamo essere pacificatori di noi stessi”. L’esercizio continuo del Tai Chi si fa rassicurante, e si trasforma in una fonte di rinnovata energia. Lou Reed, prima di tutto, ci crede ed è il suo afflato che trascina tutta una comunità di praticanti come lui. È entusiasta al punto di portarsi il maestro in tour e sul palco come se fosse la cosa più naturale al mondo. Si capisce che il Tai-Chi è una zona franca, dove non intervengono le logiche distorte dell’industria discografica e dello show business e si rivela un’occasione di incontro, di confronto, e di amicizia. “L’arte dell’allineamento” occupa una posizione centrale nella vita quotidiana di Lou Reed e la sua dedizione per il Tai Chi diventa lo spunto per conoscerlo nell’intimità, nei suoi desideri e negli ultimi, strazianti momenti, attraverso i punti di vista diversi di insegnanti, medici, colleghi, complici. Il coro delle testimonianze è ricco e assortito e i testimoni raccolti da Laurie Anderson sono tanti tra cui Iggy Pop, Jonathan Richman, Wim Wenders, i produttori Bob Ezrin e Tony Visconti che sintetizza l’arte dei Tai Chi con “spingere la testa verso il cielo e tenere i piedi saldamente per terra”. È un profilo “obliquo” di Lou Reed, molto acuto: le voci compongono un ritratto con molte sfumature differenti che, se sommate, offrono un quadro realistico degli ultimi anni di Lou Reed, così come lo racconta Anne Waldman in un denso ed elegiaco ritratto: “Lou era un artista straordinario: bello, inebriante, imprevedibile. Aveva una voce originale e un suono distintivo, e sexy. E possedeva molteplici personalità, cambiava costumi e volti e stati d’animo diversi. Lui è l’imbroglione non binario. Gli album sono mondi completi e opere in sé e per sé. Storie, poemi epici”. Se il Tai Chi è una costante, Lou Reed è visto in modo tridimensionale, anche se gli angoli più scomodi, difficili da negare, sono smussati. Associare l’autore di Heroin al Tai Chi è qualcosa in più che contraddittorio, però è anche l’evidenza che il cambiamento ha una sua forza specifica e che la trasformazione è vitale come sostiene Hal Willner: “Lou era un artista in continua transizione, non si fermava mai, era sempre alla ricerca di ciò che veniva dopo”. Lou Reed l’ha reso possibile con la stessa convinzione dedicata al Tai Chi: “Costruisci, costruisci, costruisci. Ecco come”. Inarrivabile.

domenica 29 giugno 2025

Louise Glück

Ararat è un montagna piuttosto ripida da scalare. Soprattutto nelle parti iniziali è difficile intravedere un quadro complessivo, o un senso, nel caso fosse necessario. Spesso Louise Glück, con il suo stile scarno ed essenziale, è lapidaria, senza possibilità di appello. La considerazione in Parlante inaffidabile è quasi un avviso ai naviganti: “Quanto a me, mi sento invisibile: perciò sono pericolosa. Gente come me, che sembra generosa, è menomata, è bugiarda; siamo quelli da rispedire al mittente per amore della verità”. Sono flash che lasciando interdetti, se non proprio confusi. Le scene domestiche e i legami famigliari sono tutti vagliati e limati con una lingua semplice, naturale. Louise Glück è diretta, uno dopo l’altro i versi vanno a comporre un’infinita didascalia che annoda la sottile, impercettibile trama di istantanee da cui filtra il reiterato tentativo di comprendere la natura delle cose. Protagonisti sono i rapporti con la madre, con la sorella, con nipoti e cugini, e con la dimensione sfuggente del padre. I parenti ruotano attorno in continuazione e senza sosta mentre la cornice casalinga è vista con la prospettiva di un microscopio, ma anche con la grazia necessaria per cogliere i dettagli importanti come accade puntualmente in Nuovo mondo: “Come il palloncino di un bimbo che vola via nell’attimo in cui non lo tiene stretto” e si resta “senza rapporto con la terra”.  Con il suo peso specifico, l’infanzia, ricostruita dalle minuzie ricamate nel tempo, pur essendo una materia instabile, fugace ed elementare resta l’espressione di qualcosa simile a un rimpianto per non aver potuto “scegliere le persone da amare” come recita un significativo verso di Cerchio marrone. I ricordi si creano e si ricreano  e Ararat è un territorio di dolore ma anche di ascesa e di salvezza. Il contrasto è indispensabile ed è compreso nella cadenza molto regolare del ritmo di Louise Glück perché, come scrive in Musica celestiale “l’amore per la forma è un amore per i finali”. Ecco che, con una progressione sensibile, ma inequivocabile, prende corpo una sorta di discorso con alcune linee precise che provano a definire i confini dell’anima. Non ci sono proclami, e pur mettendo in conto il titolo, neanche rivelazioni bibliche. Louise Glück riesce far intravedere quel tema infinito e ingombrante da una posizione privilegiata, illuminandosi con quattro righe di pura ispirazione. Scrive con Il bambino piange: “L’anima è silenziosa. Se mai parla, parla nei sogni”. Si tratta di un’essenza che muta, si trasforma ed è indipendente, proprio come la poesia. A parte la meraviglia, a noi resta solo “esistere nel presente”, suggerimento che arriva da una poesia il cui titolo, Lamento, ne è già l’espressione più completa possibile e immaginabile. Tra le raccolte di Louise Glück, Ararat è forse la più personale e intima, per tutte le sue connessioni con la famiglia vista come un nucleo instabile e vitale. Il livello di introspezione implica anche una certa asprezza perché Louise Glück non fa sconti a se stessa, figurarsi al lettore, e questo finché il silenzio viene assunto come “il segno che forse il debito è stato finalmente pagato” e la conservazione della specie può continuare ad aggrapparsi alle parole, come se non ci fosse molto altro lassù in cima.