lunedì 7 aprile 2025

Carl Hiaasen

Il primo a farsi notare è Palmer Stoat, “noto lobbysta, faccendiere e procacciatore di affari” che si presenta giusto così: “Io ricevo le telefonate e faccio le mie magie”. Un lavoro interessante, tutto sommato. Tra i difetti fisiologici di un mestatore professionista ha un tic speciale: storpia i titoli delle canzoni, e questo è un indizio importante. Nella sua posizione, compresa l’avvenente moglie (Desie alias Desiderata) è il perno attorno a cui ruota tutto un losco e macchinoso affare, ovvero il tentativo di trasformare Toad Island, un piccolo angolo di paradiso sulla costa della Florida abitato da un’innocua comunità di rospi, in Shearwater, un’area residenziale completa degli inevitabili campi da golf, attracchi per turisti e altri ammennicoli per un affare di ventotto milioni di dollari. La cifra è indicativa, ma non esaustiva: per collegare l’isola bisogna sostituire l’antico ponte e quando si tratta di infrastrutture e serve l’intervento del governatore e delle risorse pubbliche, viene il momento della mobilitazione di Palmer Stoat, per il quale “qualsiasi cosa non potesse mangiare, bere o riorganizzare veniva gettata via”. È proprio lì che nasce il problema, perché viene intercettato mentre disperde rifiuti dalla lussuosa BMW della moglie. Purtroppo per loro, incrociano Twilly Spree, erede di una fortuna e libero pensatore (mettiamola così), che odia i contaminatori di ogni origine e specie e dato che “la vendetta non dovrebbe mai essere ambigua”, agisce di conseguenza. Ne succedono di tutti i colori perché Cane sciolto è un romanzo pirotecnico, divertente e agrodolce. Quella punta di amarezza è dovuta al sottofondo realistico dell’intreccio di politica, affari, sfruttamento del territorio perché, come scrive Carl Hiaasen “questa storia non riguarda i rospi, ma riguarda il saccheggio”. Non buttare niente dal finestrino sarebbe già un successo, e c’è un umorismo cupo e sottile, ma costante nel febbricitante racconto di Cane sciolto. La fumosa grigliata di Carl Hiaasen prevede di tutto e i personaggi fioriscono senza sosta in un caos che comprende, in ordine sparso: politicanti, speculatori, poliziotti, bracconieri, parassiti, miracolose polveri dai corni di rinoceronti, molto alcol, bambole, sigari e ossessioni e perversioni distribuite a pioggia, compreso un tremendo killer con una cresta punk, un abito pied-de-poule e stivaletti che “Gerry and the Pacemakers avrebbero potuto portare nel 1964”. Qui siamo in un’altra era e un labrador, che poi è il vero protagonista di Cane sciolto, viene rinominato McGuinn, proprio in omaggio a Roger e in particolare a Back From Rio. Troverà un degno compare in Twilly Spree, che “pur apprezzando la poesia, sentiva che la sovversione era una causa più valida”. La Florida pare il luogo adatto per mettere in pratica la sua visione e il finale si fa convulso: non di rado con Carl Hiaasen ci si innamora dei personaggi, ma quando sono troppo nei guai e il racconto si fa via via sempre più frenetico, si sente anche l’istinto di lasciarli ai loro destini assecondando la storia, giusto per vedere come andrà a finire. Cane sciolto è l’apoteosi dell’immaginario di Carl Hiaasen che contiene la Florida con le sue bellezze naturali e i disastri umani, la sensibilità per l’ambiente e i destini delle persone, l’indignazione per la politica autoreferenziale e una corruzione endemica, tutto dispiegato a ritmo di rock’n’roll, qui elencato in un modo o nell’altro: Dylan, Beatles, Stones, Derek & The Dominoes, Doors, Beach Boys, Jethro Tull, Creedence Clearwater Revival e Tom Petty con Rebels cantata all’unisono dalla stramba e fragile alleanza tra Twilly Spree e Desie Stoat. Conoscono entrambi le parole giuste, ed è quello che fa la differenza.

giovedì 3 aprile 2025

Robert Lowry

Succede tutto a Doanville, Ohio, un microcosmo della provincia, dove la vita ruota attorno a pochi luoghi, che sembrano incastrati in uno spazio limitato e in un tempo immutabile. Una small town che riflette le tensioni del dopoguerra: una nazione di reduci che si portano dietro ferite inimmaginabili. Non solo mutilazioni, ma proprio una frattura insanabile con la realtà e con il mondo intero. È un capolinea, una trappola che non lascia alternative. Se ne vogliono andare tutti e l’unico punto di incontro è la biblioteca, tra l’altro piuttosto limitata, dove lavorano Genevieve e Petey Jordan, ormai insofferenti ai limiti culturali, alle convenzioni sociali e ai riti quotidiani. L’unico che torna è Jim Miller, reduce della seconda guerra mondiale, campagna d’Italia in particolare, ed è nella condizione di non essere “più in grado di prendere parte a nulla, distaccato da ogni cosa, solo uno spettatore del mondo che gli girava intorno, tagliato fuori da ogni vita che avesse mai conosciuto prima della guerra”. Lo stress da disturbo post traumatico non era ancora diagnosticato e Jim Miller vaga in cerca di una condizione accettabile (che non sia la sua solitudine, con una gamba in meno). Si ubriaca e ci prova con Louella, ma è un disastro. Dei quattro punti cardinali che definiscono Mi troverai nel fuoco, comprese Genevieve e Petey, lui è il più appariscente, ma all’estremo opposto troviamo Len Sharpe di cui Robert Lowry dice, molto sibillino: “I suoi sogni lambivano il nucleo bruciante del suo odio come fiamme intorno a un carbone ardente e una tale disperazione, un tale smarrimento gli stringevano la gola, negando tutte le sue fantasticherie”, compreso il miraggio di una Raximore 12 Deluxe, un’auto impossibile. L’idealista Genevieve spera in un altro destino, se non in un’altra città, e non di meno Petey, che ha il coraggio di affermare addirittura di avventurarsi nel “grande mondo là fuori” a costo di affrontarne “tutte le sofferenze”. La normalità a Doanville è soffocante, si aspettano tutti che succeda di “qualcosa di straordinario” e accade quando le fiamme distruggono una pensione occupata da anziani. È il momento in cui Mi troverai nel fuoco cambia registro e accelera le tensioni tra i protagonisti, come se le scintille si fossero propagate fino a toccare le singole personalità. Il primo, va da sé, è Jim Miller che dice: “Sono tornato credendo di essere il solo a soffrire di nevrosi di guerra, ma sembra che molti che non hanno mai lasciato Doanville non stiano meglio”. Il suo contributo al dolore, non relativo, tocca Petey nella notte dell’incendio, ma nell’aria c’è già voglia di linciaggio. Le voci corrono come cellule impazzite in una rete di chiacchiere e pettegolezzi ed è ancora Jim a cogliere il momento: “Sapeva bene dove si trovasse, quando le città ardevano intorno a lui, quando tutta la vita aveva un unico scopo. Non era colpevole, allora, non aveva responsabilità, agiva come un automa, affidato a poteri invisibili. C’era solo un modo di vivere e lui ne aveva dimenticato ogni altro”. L’incendio è rivelatore e la ricostruzione di Robert Lowry è minuziosa, in particolare nel sovrapporre le dinamiche psicologiche alle conseguenze dell’abitare laggiù, e la concertazione delle singole voci è straordinaria. Per Len “il mondo lontano dove aveva sognato di fuggire era svanito”. Al contrario, Genevieve, all’improvviso, si ritrova a vedere “i confini di una città dare significato alla propria vita”. Pare paradossale, ma nella sua condizione, limitata e tormentata, alle fine Jim è l’unico che può concedersi un’altra chance. Resta Petey, ferita e ancora più furiosa: “Ho sempre ritenuto che questa fosse la città più noiosa del mondo e a un tratto tutto comincia ad accadere simultaneamente e io sono qui con le mani in mano, addirittura esclusa da tutto, più vuota che mai. Sono qui, nella mia camera, sola come le altre volte, ma non è la stessa cosa”. Avviso ai naviganti: l’unica Doanville  nota ai topografi corrisponde a un’area non incorporata nella contea di Athens, Ohio, una definizione giuridica americana per rappresentare una terra di nessuno e non pare proprio una coincidenza. Consigliatissimo.

mercoledì 2 aprile 2025

Erskine Caldwell

La madre “era una danzatrice di facili costumi di passaggio sulla Quarantanovesima Strada, e non teneva il registro di chi andava a letto con lei”. Con questo, il milieu che affronta il primo romanzo di Erskine Caldwell, pubblicato nel fatidico 1929, è delimitato chiaramente fin dalle prime pagine: Gene Morgan è Il bastardo, di nome e di fatto, che non trova il suo posto e si muove in continuazione con la sua pistola. Nasconde un istinto omicida (che sfodera giusto un paio di volte, restando tuttavia impunito) e si inoltra in territori cupi, segnati dalla disperazione e dalla promiscuità. Il bastardo offre tre livelli essenziali che Gene Morgan affronta in fretta consumando tutto e troppo presto. Prima trova un impiego in un oleificio, che sembra un passo obbligato verso una condizione esistenziale più accettabile, nonostante le modalità del lavoro, che consistono “nel riempire continuamente di seme di cotone le bocche di alimentazione” nell’arco di “undici ore, cinque notti e mezzo la settimana”. Anche se i ritmi sono questi, gli operai trovano modo di sfruttare ogni piccolo intervallo per tirare i dadi e consumarsi la misera paga. L’azzardo è una costante per Gene e non solo per il gioco, ma anche nei confronti delle donne, dove viene coinvolto in incontri e rapporti ambigui, dove la violenza è dietro l’angolo. Per Il bastardo, viene il momento di capire che “non valeva la pena di fare una vita come quella”, lascia l’oleificio e comincia un’assidua frequentazione dei bordelli. È la seconda parte dell’esordio di Erskine Caldwell, una fase di transizione che vede Gene Morgan trascinarsi di stanza in stanza in combutta con lo sceriffo Jim Hunter e il figlio John. A Lewisville, Georgia “faceva troppo caldo per vivere. Il sole cuoceva e spellava le colline sabbiose dalle sette del mattino fino alle sei o sette di sera, e le notti non erano molto più fresche”. Il clima è bollente, e non solo per le condizioni atmosferiche: il linguaggio di Erskine Caldwell è crudo e particolarmente limitato nel raccontare le vicissitudini che Il bastardo si ritrova ad affrontare di volta in volta, come se fosse una testimonianza diretta senza l’intermediazione di una parvenza di stile. Le frasi sono troncate, il tono è ruvido e impietoso, la forma sprofonda spesso nel gergo con parole che sono “colpi di frusta brutali”, per dirla con lo stesso Gene Morgan. Una modalità scarna, limitata, con molte accezioni blues (le reiterazioni, per esempio) che filtrano scena dopo scena con un momento di particolare efficacia nel racconto del funerale di Jim Hunter, un paio di pagine davvero impressionanti. L’ultimo passaggio vede Il bastardo arrivare a toccare con mano la felicità. Riprova ad avere un lavoro come autista (“A Gene piaceva molto guidare e infatti in breve tempo divenne così esperto da portare un autocarro. Per la prima settimana il suo lavoro di autista si svolse in città. Gli fu promessa presto una lunga corsa. Questo era ciò che voleva”) e sposa Myra, poco più di una bambina. La gioia del matrimonio viene celebrata su un autocarro in un viaggio traballante, dove “un altro mondo traboccante delle pene e delle gioie della vita passava in rivista solo per essere subito fatalmente distrutto”. Le antiche ombre tornano a pesare quando nasce il figlio, Leon, che stenta a sopravvivere e ha una lunga serie di problemi, al punto di rendere la vita di Myra e Gene “una tortura continua” e costringendo Il bastardo a una scelta crudele e fatale, degna conclusione di un romanzo feroce e inesorabile.

giovedì 27 marzo 2025

Smith Henderson

Pete Snow si occupa di “bambini che avevano patito ogni sorta di inferno”, lottando ogni giorno con “la loro durezza intatta. Il distacco, la saggezza che alcuni avevano acquisito”. Si prodiga tra Tenmile, Missoula e Hamilton, piccoli crocevia geografici in una vasta area del Montana dominata da un’aridità sociale che si riflette nel clima atmosferico (gelido) e nell’uso smodato e costante di additivi chimici, con l’alcol come carburante continuo. Le situazioni che Pete deve affrontare, quelle di Cecil, di Beth o Mary, tendono a ripetersi, come se i minori, non meno dei parenti, fossero esiliati in patria. Siamo tra il 1980 e 1981 e l’elezione di Reagan pone già dei seri dubbi (non meno di oggi) sui servizi sociali e, dal quel punto di vista, Redenzione riesce a mettere in risalto l’incapacità delle istituzioni e i loro fallimenti verso le persone. A farne le spese è l’idea stessa di famiglia che viene disintegrata, compresa quella degli Snow che annovera la scomparsa di Rachel (diventata poi Rose), figlia di Pete, e il disagio del fratello Luke, collezionista di precedenti penali in libertà vigilata. I “diversi tipi di desolazione” comprendono anche i Pearl, disseminati sulle montagne, tra un’idea estrema di apocalisse imminente, paranoie assortite e istinti naturali. Inseguendoli, Pete, che non è esente dall’atmosfera complessiva di fallimento e sconfitta, si immerge in una wilderness feroce e ammaliante, introdotta da Smith Henderson con l’epigrafe di Thoreau. Il contrasto rispetto alle movenze in città apre ampie parentesi narrative, che vanno da Seattle a Austin. Seguendo i viaggi americani di Pete in “luoghi che non erano neanche villaggi, solo piccoli avamposti di accanito individualismo”, ed è ancora un eufemismo, Redenzione procede a balzi come se Smith Henderson, alla pari dei suoi protagonisti, si fosse inoltrato in un sentiero senza aver un senso della direzione, per non dire della meta. Il disorientamento, a tratti straziante, è palese e collima in gran parte con Pete Snow che tra tutti i personaggi è il più combattivo, perché attraversato dai dubbi e dalle tensioni, con “il cuore attorcigliato come un asciugamano bagnato”. Non ci sarà alcun riscatto, piuttosto una lunga teoria di abusi, tradimenti, fughe, abbandoni, risse, malesseri e promesse non mantenute. Smith Henderson scava con convinzione e assiduità e se non altro ha il coraggio di affondare nei resti di una civiltà: bambini scomparsi, prostitute, devianze di ogni genere. Un catalogo aspro e livido che non lascia via di scampo e di cui è necessario tenere conto: “C’erano anche persone con segreti. Un ladro. Un omosessuale. Gente che maltrattava i figli in case che sulla mappa mentale di Pete risaltavano come lampeggiatori, perché lui sapeva. Custodiva i loro segreti”. Ci sono storie che cozzano una contro l’altra, anche se il terreno derelitto su cui avvengono è lo stesso per tutti. A tratti pare di leggere non un romanzo, ma la costruzione di un romanzo, dove Smith Henderson spesso spiega, più che raccontare la dissoluzione nell’alcol di un’America disperata, nel tentativo di rendere plausibile il ritratto di una decadenza continua, senza speranza, a tratti brutale. In alcuni momenti, Redenzione sembra assemblato con parti di sceneggiature (che poi è il lavoro che fa Smith Henderson) e rimane in qualche modo incompiuto, per quanto eccessivo, e anche inconcludente, come gran parte dei suoi personaggi. Nessuno è perfetto, a maggior ragione trattandosi di un esordio, che resta, con tutti i suoi limiti, un romanzo doloroso e tumultuoso, in cui inoltrarsi con le dovute cautele.

mercoledì 26 marzo 2025

Joan Didion

The White Album, e ogni riferimento ai Beatles non è casuale, raccoglie testimonianze di Joan Didion in un arco temporale che va dal 1968 al 1978, ultima tappa di un tour de force senza limiti. Sono anni esotici, erotici e caotici in cui Joan Didion non si identifica finché arriva precisare che “quel che mi sono costruita è privato, ma non è esattamente pace”. La sua individualità, la sua formazione sono troppo definite per apparentarsi con un’ideologia e in quella condizione è come se per tutti quei tempi che stavano cambiando avesse avuto la pelle scoperta. Una straordinaria sensibilità capace di coniugare le esperienze personali (e famigliari) con le cronache inquiete, ancora di più, l’atmosfera di un decennio turbolento e non proprio così sereno e felice. Joan Didion rimane partecipe e lucida, scrive con un’attenzione profonda, che si tratti di un articolo sullo stoccaggio di sarin e gas nervino o del resoconto di una session dei Doors per Waiting for the Sun. È incisiva in ogni frase e nella forma del saggio breve, che è lo standard della collezione di The White Album, trova una particolare ispirazione nel giostrarsi con le contraddizioni e gli exploit dei protagonisti dell’epoca, dagli adepti di Charles Manson a politici, predicatori, ribelli e rock’n’roll star in ordine sparso. Si ritrovano tutti sotto la lente di Joan Didion che ha un modo scrupoloso di osservare ogni singolo dettaglio, pur mantenendo una specifica distanza emotiva dall’euforia e dall’effervescenza dell’epoca, sottolineata con una frase lapidaria: “L’unico commento che posso offrire è che, ripensandoci adesso, un attacco di vertigini e nausea non mi sembra una reazione inappropriata all’estate del 1968”. Al giro di boa dei Sixties, dedica gli splendidi ritratti di Doris Lessing e Georgia O’Keeffe, da inserire nel contesto di un’analisi molto acuta sul femminismo che merita di essere letta e riletta spesso. La sfera pubblica e quella più intima e riservata si susseguono e si completano senza sosta: la descrizione dell’emicrania (un fatto molto personale) è un’apoteosi di stile e classe così come uno dei momenti più lirici è il resoconto della trasferta alle Hawaii. Siamo già nel 1970 e gli “arrivi dal Vietnam” (1078 morti nelle prime dodici settimane dell’anno) toccano anche le pendici dei vulcani a cui Joan Didion dedica pagine toccanti. I reportage di viaggio comprendono angoli del mondo remoti, come Bogotà ed El Dorado, un mito fatto di polvere d’oro, e distrazioni casalinghe con le orchidee e i bagnini di Malibu, gli incendi a Los Angeles, le leggende colombiane e le astruse routine di Hollydwood, dalle idiosincrasie della critica cinematografica alle clausole contrattuali che determinano il futuro di un film ancora prima di una singola ripresa. Lei annota e commenta tutto, senza differenze o confini, ma trovando una collocazione per ogni immagine, fino a riconoscere “l’America con tutte le sue intemperie ed eccentricità e specificità tanto variabili da inebriare”. Una riscoperta che trova un supplemento di riflessione nell’ampia digressione sui nuovi quartieri residenziali e sullo  sviluppo dei centri commerciali, primo sviluppo architettonico di tutta un’altra era. Joan Didion, per non smentirsi, la percepisce come un’opportunità esclusiva, con tutta l’ironia compresa nel prezzo: “La mia vita vera consisteva nel starmene seduta in quell’ufficio a descrivere come si viveva a Giacarta, a Caneel Bay e nei grandi châteaux sulla Loira, ma la mia vita immaginaria consisteva nell’allestire un centro commerciale regionale di classe A con tre grandi magazzini generalisti come locatari principali”. L’iperbole ha senso e Joan Didion ammette che è proprio in quel momento che comincia “a vedere tutto il paese come una proiezione in aria, una specie di ologramma, un’astratta griglia di immagine, opinione, impulso elettronico”. Arrivata ormai al 1978, volge lo sguardo a quello che è ormai diventato un passato ancora da decifrare: “Noi altri, per la maggior parte viviamo in modo meno teatrale, ma rimaniamo i superstiti di un’epoca insolita e introversa. Se riuscissi a credere che salire su una barricata possa avere il minimo effetto sul destino dell’uomo, ci salirei, su quella barricata, ma non sarei onesta se dicessi che prevedo di imbattermi in un finale tanto lieto”. Le resta un ultimo brindisi (bourbon, direttamente dal servizio in camera) e poi tanti saluti a Lucy In The Sky With Diamonds, a Mr. Tambourine Man, e addio anche al re lucertola.

lunedì 24 marzo 2025

Tom Wolfe

L’arrivo degli architetti, dei pittori e degli psicologi europei in fuga dal nazismo trova terreno fertile negli Stati Uniti. L’influenza della Bauhaus e in particolare di Walter Gropius, poi di Le Corbusier, dettano un nuovo rapporto tra l’architettura e l’ideologia, un cambio radicale che, giusto per cominciare, Tom Wolfe registra così: “Finora l’architetto americano era uno il cui compito consisteva nel prestar coerenza alle romantiche fantasie dei capitalisti e rifinirle nei dettagli. In Europa, invece, vedevi congreghe di architetti lavorare con la piena autonomia dei sommi artisti”. Una netta differenza di cui Tom Wolfe a modo suo evidenzia le idiosincrasie tra diverse scuole di pensiero e d’arte, visto che si era arrivati alla paradossale situazione per cui “per l’architetto ambizioso, avere una teoria era ormai indispensabile come avere il telefono”. Giusto per rendere l’idea, riportava un commento di Frank Lloyd Wright, l’unico a puntare su un’architettura dichiaratamente americana versus Le Corbusier: “Ora che ha finito un’opera, ci scriverà su quattro libri”. Questo serve a sottolineare anche che ogni “convento” ha la sua scuola e i suoi diktat a partire dall’aperto contrasto tra l’approccio individuale, ovvero “il genio solitario la cui opera può dirsi soltanto sui generis” e il lavoro di squadra. Con la sua attitudine (“Quella parola, pop, era ormai diventata una delle maledizioni della mia vita”) Tom Wolfe scontra con l’urgenza dell’architettura e puntualizza sulle “teorie a livello di quel-che-la-gente-vuole”, il concetto di “borghese” e i risultati, visivi e sociali, di strutture concettuali che, non a caso, nella versione residenziale e abitativi venivano chiamati project, come se non avessero mai superato la dimensione speculativa. Per dire, i tetti spioventi vengono negati, insieme ad altri fronzoli, perché non adeguati alle nuove culture architettoniche, basate sull’essenzialità dei parallelepipedi, ben illustrata da Tom Wolfe: “Nei momenti di massima serietà, nessuno riusciva a disegnare altro che scatoloni. Fatto sta che, ormai, gli studenti di architettura, da ogni parte d’America, si trovavano all’interno di quella scatola, la stessa scatola entro la quale si erano chiusi gli architetti di convento, in Europa, vent’anni addietro”. Costruzioni geometriche, dalle linee rigide, sorgevano dal nulla, con forme destinate a una dimostrazione d’intenti piuttosto che a una sostanziale utilità. Tom Wolfe sfodera il suo tagliente umorismo e non concede l’onore delle armi ai Maledetti architetti: “Dunque, abitavi in un edificio che sembrava una fabbrica, e l’avevi pagato fior di dollari. E con ciò? Ogni edificio moderno di qualità sembrava una fabbrica. Doveva sembrare una fabbrica per essere moderno. Era l’aspetto del giorno”. È ancora più drastico quando racconta una “città modello” sviluppata a New Haven su strutture modulari che “consisteva in grappoli di elementi prefabbricati” e ricorda che “il guaio era che quegli elementi non combaciavano bene. Dalle fessure entrava il vento, entrava la pioggia. Le porte a volte si aprivano, a volte. Quando si aprivano, le persone rispettabili ne approfittavano per andarsene”. C’è del vero in quello che articola Tom Wolfe osservando degenerazioni plastiche senza alcun contatto né con la realtà né con l’immaginazione e contemplando anche i rari outsider che si sono ribellati ai principi dominanti, sempre con un pensiero, e una smorfia, alle deformazioni delle congreghe culturali, e non solo quelle dei Maledetti architetti.

mercoledì 19 marzo 2025

Henry Miller

Con Il tempo degli assassini, Henry Miller  è lucidissimo e incisivo anche nell’inseguimento di una figura sfuggente, selvatica e inafferrabile come Rimbaud. All’inizio, come scriveva Arthur Hoyle, “nell’esistenza e nella missione artistica di Rimbaud Miller vedeva più di un’analogia con se stesso, ed è per questo che il suo studio su Rimbaud è utile, non tanto per quello che ci dice sul poeta, bensì per quello che rivela di Miller, della sua percezione di se stesso nei panni di artista e uomo”. La ricerca di “analogie, affinità, corrispondenze e ripercussioni” nutre il suo confronto diretto con Rimbaud, più per le parti biografiche che per quelle letterarie. Un sovrapporsi costante, continuo, a partire da “una sottesa natura primitiva” si evolve molto rapidamente: Henry Miller è convinto che “era suo destino essere il poeta che elettrizza la nostra età, il simbolo delle forze dirompenti che ora stanno rendendosi manifeste”. Detto questo, Rimbaud rimane comunque un oggetto non bene identificato: “La sua vita, nonostante tutti i fatti a nostra disposizione, rimane un mistero quando e come il suo genio”. Accettati i limiti, Il tempo degli assassini progredisce poi provando ad accostare Rimbaud, “poeta e uomo d’azione”, a D. H. Lawrence, tra vite e tempi diversi che Henry Miller riesce a sottolineare, persino con una certa disinvoltura, ed evidenziando l’aspetto “traditore e sacrilego” ne tracciare un parallelo anche con Van Gogh fino ad arrivare a Dostoevskij. L’apologia di Rimbaud curva quando Henry Miller spiega che “aveva identificato il proprio destino con quello dell’epoca più cruciale che l’uomo abbia mai conosciuto” e comincia a delineare con maggiore chiarezza una figura incredibile. Senza dubbio è “l’incarnazione del ribelle”, e su questo non c’è eccezione che tenga, ma è anche un’identità complessa, perché “è come se congiungesse in un solo personaggio Shakespeare e Bonaparte”. Rimbaud è “sempre troppo”, con lui “la meta è sempre oltre”, ma è soprattutto profetico quando dice che “un mondo completamente nuovo, mondo terribile e ripugnante, ci sta ormai addosso. Un giorno ci sveglieremo per affacciarci su uno spettacolo che supererà ogni potere di comprenderlo”. Con Il tempo degli assassini, Miller riesce a distinguere le peripezie e le avventure di Rimbaud dalla sua essenza poetica, sapendo che “uomini così sono profondamente collegati con lo spirito dei tempi, con quei problemi sottesi che assillano l’epoca e le danno il carattere e il tono”. Su questo non c’è dubbio, anche se Rimbaud dichiarava: “Dobbiamo assolutamente essere moderni”, definendo una cesura netta con il passato. Miller l’aveva capito benissimo e ribadisce, infatti: “Uomini così affondano le radici proprio in quel futuro che ci disturba tanto profondamente. Hanno due ritmi, due facce, due interpretazioni. Sono una cosa sola con la trasformazione, col flusso. Sapiente in un nuovo modo, il loro linguaggio a noi pare arcano, se non pazzo o contraddittorio”. La differenza è tutta nello stile, in Rimbaud una limpida emanazione della personalità, come ha notato Miller: “Ogni scrittore crea qualche passaggio allucinante, qualche frase che non si dimentica, ma in Rimbaud questi tratti sono innumerevoli, gremiscono tutte le pagine, come gemme che si spargono da uno scrigno scassinato”. Rimbaud di sicuro “si sarebbe riservato qualche risorsa per i giorni di pioggia”, ma Miller sostiene, ancora: “Avevo allora, e ho tuttora, il senso che per il nostro tempo egli abbia detto tutto. Era come se avesse piantato una tenda sul vuoto”. Henry Miller prova ad assorbire Rimbaud, e si pensi soltanto a Democrazia, ricollocando il suo pensiero al suo e nostro tempo. Lo si sente quando dice: “Abbiamo riposto la nostra fede nella bomba, sarà la bomba a rispondere alle nostre preghiere”. Quell’incubo permane, ed è sempre peggio, “ma continuiamo a praticare il convenzionale galateo dei vermi” ed è così che “i mentecatti stanno parlando di riparazioni, di inchieste, di paghe, di schieramenti e di coalizioni, di libero scambio, di stabilità e di ricostruzione economica. Nessuno crede in cuor suo che la condizione del mondo possa essere raddrizzata. Tutti si aspettano il grande evento, il solo che ci preoccupi giorno e notte: la prossima guerra”. In quanto a Rimbaud, Henry Miller conclude: “Interpretatene l’opera come vi pare, spiegatene la vita come volete, per ora non c’è niente che lo faccia scomparire. Il futuro è tutto suo, anche se non ci fosse più futuro”. Era il 1955, a Big Sur, davanti all’oceano, in cima al mondo, Il tempo degli assassini vale anche per domani.

martedì 18 marzo 2025

Larry McMurtry

Luna comanche ci riporta all’inizio della saga di Gus e Call, quando i ranger sono l’unica unità a presidiare “la frontiera, dove ordine e legge erano parole sconosciute e regnava il caos”, un confine che viene spostato di volta in volta lungo i territori indiani, verso il Messico, dentro le praterie, creando per ogni passaggio un nemico nuovo e diverso. L’America è nata così, compresa la guerra civile, che si stende come un’ombra cupa su Luna comanche. Larry McMurtry è lirico ed entusiasmante nel descrivere i destini umani e quelli degli stati, che finiscono nel sangue e nella polvere. Per Gus e Call è un momento crepuscolare di sacrifici immani e, più di tutto, distinto da una solitudine stringente. Le missioni sono spesso dei fallimenti, tanto è vero che Gus dice: “Quando mi assegnano un lavoro impossibile, la mia soluzione è trovare un bordello e restarci finché sono senza un soldo”. Non è molto diverso per l’amico di sempre, Call, che delinea il quadro della situazione con poche, essenziali parole: “Non abbiamo un metro di terra. Non sono nostri nemmeno i cavalli. Tutto quello che abbiamo sono le pistole e i vestiti. E le selle. Almeno quelle sono nostre”. Anche dalla parte comanche, l’aria che tira è quella della fine di un’epoca: le ultime, sanguinose scorrerie di Buffalo Hump, i furti di cavalli di Kicking Wolf, la ribellione di Blue Duck conducono sullo stesso territorio, tra il Texas e il Messico. Racconti e leggende si tramandano attraverso un ambiente aspro, durissimo e affascinante (il deserto, le montagne, i canyon, il llano, i fiumi e la prateria) dove il tempo sembra non passare mai. La capacità di intessere i luoghi, gli animali, la vegetazione con gli esseri umani porta Larry McMurtry a dipanare una trama che va ben oltre le bellicose contingenze di tutti: banditi, guerrieri, soldati, ribelli, furfanti, giovani e vecchi che siano. L’avvicendarsi dei personaggi che si muovono in gruppo attorno a Gus e Call, ma che poi emergono in prima fila uno dopo l’altro, rivelandosi protagonisti nello stesso modo, rende Luna comanche una volitiva scorribanda che svela la debolezza intrinseca del potere e delle sue espressioni più violente (la guerra, gli stupri, le torture, i rapimenti) così come le sconfitte dei ranger, sia sul campo, sia una volta tornati a casa, ad Austin. Figure ingombranti, e fuori posto, come il colonnello (poi generale) Inish Scull e la moglie Inez, si scontrano con entità misteriose come Ahumado, un predone messicano che esercita le crudeltà più assurde per regnare incontrastato in un angolo sperduto del border. Con una generosità unica, comprensiva di ogni dettaglio e, tra le righe, persino di un sottile senso dell’umorismo, Larry McMurtry non risparmia nulla e ipnotizza il lettore nel raccontare le gesta di Gus e Call, nell’epicentro di un mondo ormai travolto dagli eventi: la colonizzazione del West, l’estinzione dei bisonti, la guerra in ogni declinazione e in tutte le direzioni, si scontrano con credenze e sogni, menù con “zuppa di gufo” e antilocapra arrosto, storie d’amore e di follia, tracce di fughe e inseguimenti, sullo sfondo di una pianura “così vasta da dare l’impressione di vedere l’orlo dell’infinito, eppure in tutto quello spazio non c’era nulla”. Un posto sperso nel nulla come Lonesome Dove appare come un miraggio e c’è un motivo da ricordare: Luna comanche è l’ultimo episodio dell’epopea di Larry McMurtry, ma è il secondo capitolo nell’ordine della narrazione, giusto tra Il cammino del morto e Lonesome Dove. Sarà il futuro per Gus e Call, ma una reliquia del passato nel corso della conquista e della creazione di una nazione. Una rappresentazione epica di un tempo drammatico, un romanzo grandioso.

giovedì 6 marzo 2025

Greil Marcus

Cercare di mettere ordine nell’empireo di Bob Dylan è un’impresa complessa e ci vuole, come minimo, una parvenza di lucidità. Greil Marcus si è impegnato per qualche decennio e non è stata una lotta semplice perché prima di tutto “Bob Dylan ha costruito una carriera disseminando indizi che nessuno raccoglie” e nel frattempo ha “messo una testa sul corpo della musica pop”, ovvero insieme agli Stones e ai Beatles ha partecipato alla “creazione di un immaginario comune accessibile a tutti noi”. Le iperboli di Greil Marcus arrivano a pioggia, e senza preavviso, e da Dylan partono per considerazioni più complessive: “Mi manca la sensazione che ci sia ben più nella musica, o nell’artista, o in me stesso, di quanto immaginassi, quella che nasce quando una canzone compare alla radio o sul piatto e io non riesco a prevedere quale sarà il suo effetto su di me. Mi manca la sensazione dei musicisti che si tuffano in una performance senza sapere bene che via stanno percorrendo, per non parlare di quando ne usciranno, ma con la convinzione innocente e nervosa che il viaggio si trasformerà in sorpresa, a prescindere dal costo dell’incertezza”. Gli Scritti 1968-2010 raccolti differiscono: l’ascolto di Self Portrait, canzone per canzone, è epico,  il saggio su High Water (For Charley Patton) e l’11 settembre sottolinea una volta di più il carattere profetico della musica di Dylan, la celebrazione di Blind Willie McTell è puntuale e doverosa, così come il capitolo su Promised Land di Chuck Berry e quello dedicato all’Anthology of American Folk Music dove Greil Marcus spiega che “queste canzoni sono ovvie e misteriose come il tempo atmosferico; è impossibile non capirle, ma allo stesso tempo non si riesce a coglierne il nocciolo”. Non c’è soltanto Dylan: come una forza magnetica attira Martin Scorsese, la Band, Ray Charles, Van Morrison, Elvis Costello ed Elvis Presley, Don DeLillo (Great Jones Street è il romanzo più dylaniano di sempre) e Animal House. A volte Dylan è soltanto una scusa per andare in cerca di qualcosa di più vasto che risponde ancora a “un’America più grande e misteriosa” e seguendo “il testo segreto di un paese nascosto” in un arco temporale che comprende parecchie generazioni troviamo Jack Kerouac, le road songs di Bob Seger e Bruce Springsteen, il successo dei Wallflowers e, ancora prima, dei Counting Crows. È una ragnatela che comprende recensioni, note, excursus più dettagliati, promemoria, commenti (la posizione rispetto a We Are The World è lungimirante, alla fine): c’è una certa severità nelle analisi (più che competenti) di Greil Marcus nel tentativo di comprendere “la capacità di turbare, liberarsi delle convenzioni che tutti rispettano nella vita, quel che ci si aspetta di sentire, dire, sentirsi dire, imparare, amare o odiare, a definire la voce di Bob Dylan, in senso stretto e lato”. Qualche limite è da mettere in conto: a volte è eccessivo nelle digressioni, qui e là affiorano un sentore di accademia e qualche rebus (“Una delle funzioni del rock’n’roll è il sovvertimento degli schemi culturali e, per estensione, di quelli del rock’n’roll”), però associare i cameo di Alfred Hitchcock all’armonica di Dylan è un esercizio temerario, e divertente. Scritture e successive riscritture, tendono comunque a ricordare che “nel corso della sua carriera, Dylan ha impiegato le allegorie bibliche come una seconda lingua: i temi dell’esilio spirituale e del ritorno a casa, la salvezza personale e nazionale sono stati al centro del suo lavoro”. La costante che collega tanti frammenti diversi e distanti è “un tentativo di rimanere all’interno del dialogo che l’opera di Dylan ha sempre cercato di creare intorno a sé” e, in un modo o nell’altro, il songwriting torna in continuazione al centro dello scenario, dove è giusto che stia: “Ogni fraseggio era una sorpresa: non si poteva prevedere il suono che avrebbe avuto. La canzone stessa, la sua struttura, era a malapena un indizio. I limiti c’erano per essere aggirati”. La somma finale è “la sensazione che l’artista stia lavorando al massimo, che noi stiamo facendo straordinari, che i limiti siano stati sconfitti”. Ecco, è proprio vero che con Dylan “sentiamo ciò che è andato perduto e sentiamo ciò che pochi altri sono riusciti a toccare”: gli Scritti 1968-2010 (una vita, in effetti) di Greil Marcus suggeriscono che si tratti di “una casa che dobbiamo costruirci da soli”, e ci vuole tutto il tempo necessario.

mercoledì 19 febbraio 2025

Steve Wynn

La vita in una rock’n’roll band è un’esperienza per cui serve soltanto una cosa: buttarsi. Una volta dentro, o impari, o affoghi. Steve Wynn è uno che ha capito tanto, se non proprio tutto, delle dinamiche di un gruppo e il suo memoir è (anche) un manuale di sopravvivenza per gli artisti nell’industria discografica. All’inizio, ragazzo timido e solitario sulle colline di Los Angeles, è giusto il fascino dell’emulazione: “Volevo fare parte di tutte le band che amavo, e non vedevo alcun motivo per cui non potesse accadere”. Nel cuore di questo spontaneo riflesso, c’è già il passaggio successivo e conseguente: “Non bastava più imitare John Fogerty o Pete Townshend o John Lennon. Volevo diventare la mia versione di loro, e questo significava creare il mio universo, dove la mia musica esistesse sullo stesso piano e allo stesso modo della loro. Le canzoni erano il mezzo per trovare il mio posto nel mondo, ed erano anche i miei nuovi amici immaginari”. La condizione di adolescente e sognatore è un terreno molto fertile per sviluppare ambizioni speciali, a partire dal songwriting, presto in cima alla lista dei desideri di Steve Wynn: “Essere da solo come lo ero io significava che la mia immaginazione poteva correre sbrigliata. Inventavo di tutto, dagli amici immaginati ai film e ai libri immaginari, fino alle canzoni. Vivevo in gran parte dentro la mia testa, e questo era un terreno fertile per i rimuginamenti e le idee creative. Questo bisogno di creare un mondo tutto mio, abbinato alla mia passione per la musica, rese la scrittura di canzoni una scelta naturale”. È una scoperta fondamentale e se i primi passi sono ancora frutto di un candido anelito (“Scrivevo perché ero affascinato dalla musica che ascoltavo alla radio e volevo sentirmi parte anche io di quel mondo”), ben presto per Steve Wynn, diventa il songwriting uno strumento irrinunciabile: “Per la verità, spesso mi sorprende che le persone non scrivano canzoni, soprattutto i musicisti. A me sembra un’estensione naturale di suonare e di amare la musica. Senti delle cose, prendi ispirazione, intoni una melodia, hai qualcosa in testa, qualcosa che ti frulla nella mente; aggiungi queste parole alla tua melodia e voilà!, hai una canzone”. Fosse così semplice: la passione per i dischi, per i negozi, le radio e i concerti, la genesi degli album, le mutazioni delle rock’n’roll band si sovrappongono alle motivazioni e alle controindicazioni nella vita di un musicista. Con i Dream Syndicate, Steve Wynn attraversa ogni fase e ne parla senza filtri. Una parte rilevante di Non lo direi se non fosse vero è occupata dall’aneddotica della vita on the road dei musicisti, su cui Steve Wynn non si risparmia, concedendo molti risvolti inediti. Ci si intrufola nei tour bus, nei backstage, sui palchi con gli U2 e i R.E.M., si sperimenta quel rock’n’roll lifestyle con lo sguardo di un artista poco propenso al compromesso e con un obiettivo molto chiaro: “Volevo solo portare avanti il sogno”. Non ci sono soltanto Steve Wynn o i Dream Syndicate: ci sono dozzine di rock’n’roll band più fortunate o più astute, o tutte e due, che hanno intersecato i loro percorsi, e, pur tenendo conto di diatribe, scontri e meschinità assortite, dichiara di essersi sentito “parte di qualcosa di molto speciale”. È per quello che gran parte della sua autobiografia coincide con la storia dei Dream Syndicate che “sono sempre stati, in fondo, una jam band e una groove band. Siamo sempre stati una band che divaga, che si spinge al limite, che sfida se stessa a precipitare nell’oscurità, per salvarsi all’ultimo secondo e per rifarlo di nuovo. Probabilmente è la cosa che ci riesce meglio, ed è uno dei motivi principali per cui la gente viene ancora a vederci suonare dopo tutti questi anni”. È proprio così che Non lo direi se non fosse vero racconta “l’improbabile storia di sopravvivere e di costruire una vita con la musica”: come se fosse dal vivo, dove tutto, errori e rimpianti compresi, suona più autentico. 

lunedì 17 febbraio 2025

Emily Dickinson

Tra i dodici apostoli che per Harold Bloom rappresentano Il canone americano, Emily Dickinson occupa un posto speciale, illustrato così: “Lei è sempre lì: sa farsi valere, ha fiducia in se stessa, brilla nella propria luce”. È protagonista assoluta anche quando è In caccia del giorno, un’apprezzabile selezione a cura di Lorenzo Gobbi che la segue Sulle tracce del divino, come recita l’appropriato sottotitolo. È una fede molto dialettica, quella di Emily Dickinson, e trova spazi imprevedibili nelle sue poesie. La sacra presenza si concede un po’ alla volta, e la poetessa ne fa, in primis, una questione tutta personale: “Me la vedo con le nuvole, se qualche potere c’è al di là di loro che non sia sottomesso alla disperazione, che mai si prenda cura, nel più segreto modo, di una questione così piccola come la sofferenza, troppo vasto, lui, per disturbarlo, di più”. L’interlocutore resta incognito: il suo nome, scritto nei cieli, è noto e ribadito, ma anche dissimulato perché “lunghi anni di lontananza, non sono capaci di creare una frattura che un istante non sappia ricolmare, l’assenza del mago non disarma l’incantesimo, le ceneri di mille anni riportate allo scoperto dalla mano che quando erano fuoco le accarezzava ritroveranno movimento e capiranno”. A sua immagine e somiglianza, ci sono i riferimenti alle gioie naturali, compresi “questi febbrili giorni, alla foresta portarli dove acque fredde scivolano attorno ai muschi, e l’ombra è tutto ciò che saccheggia la quiete silenziosa, questo sarebbe tutto: così mi pare a volte” o il manifestarsi in fenomeni come “il segnale chiaro del vento per l’orecchio, quello che lo rende familiare, e severo, appagato, conosciuto, prima”. La cernita è ardita, ma ha una forza specifica nel mostrare la “teologia del desiderio”, come viene ricollocata nella brillante definizione di Lorenzo Gobbi: la poesia di Emily Dickinson è la costante celebrazione di un’energia folle e invisibile che viene tradotta verso dopo verso visto che “l’onnipotenza non ha una lingua e il suo suono caratteristico è il lampo, e il sole, la sua conversazione con il mare”. È un dialogo incalzante che si estende con una certa fluidità, puntando lassù “perché gli angeli si prendono in affitto la casa accanto alla nostra, ovunque noi andiamo a stare”, e restando spesso ancorato alla terra sapendo che, in fondo, si tratta di “un gioco, dura un attimo. È lo stare appostato di chi prova affetto, per fare in modo che la gioia se la guadagni, la propria sorpresa!”, ed è qui che mosaico si completa con un’asserzione lirica nella forma e concretissima nella sostanza: “Resterà, quella giusta cortesia quando la gioia sarà polvere con cui ricordiamo questo caso straordinario di fiducia ricompensata. Di tutto ciò che ci è permesso sperare nulla resiste se non la dichiarazione solenne che questo era dovuto proprio là dove più sentiamo la paura di essere gli amici che nessuno aspetta”. In caccia del giorno si spinge nei recessi più profondi della poesia di Emily Dickinson che arriva a guardare dentro l’infinità celestiale e a sentenziare: “A un punto tale il cielo è cosa delle mente che, se la mente fosse dissolta, il posto, suo, non c’è architetto lo potrebbe ancora dimostrare. È vasto, come lo è la nostra capacità, è bello, come l’idea che noi ne abbiamo, per colui che ne ha un adeguato desiderio, non è più lontano, di qui”. È un’iridescenza che stupisce solcando distanze impossibili, arriva all’improvviso “e lascia l’anima abbagliata nelle sue stanze senza nulla”. Comprenderla non sarà semplice, come non lo è stato per Harold Bloom: “La sua arte enigmatica è così ellittica che ci lascia dubbiosi riguardo a ciò che dice e al possibile significato delle sue parole. L’originalità, il suo attributo più forte, esige un prezzo in termini di conferma”. Non c’è alcun dubbio e l’esimio parere è così condiviso da Lorenzo Gobbi: “È difficile, a volte, cogliere riferimenti precisi nelle formulazioni densissime delle liriche dickinsoniane, e non sempre è utile riuscirci: possiamo, piuttosto lasciare che risuonino assieme ai più profondi e autentici tra i nostri pensieri”. Eccola qui, con tutto il suo sublime afflato: “È per loro che mi preparo, cerco il buio, fino a quando non sarò pronta davvero. La fatica è seria con questa dolcezza che le basta, che l’astinenza di tutto ciò che mi appartiene produca un cibo più puro per loro, se riesco, se no avrò avuto il desiderio della meta”. Il traguardo è stato annunciato più volte, ma anche in questo caso Emily Dickinson si concede un’opzione supplementare nell’altissimo confronto: “Il Paradiso è della nostra facoltà di scelta. Chiunque voglia dimora nell’Eden, nonostante Adamo e la cacciata”. Inarrivabile.

mercoledì 5 febbraio 2025

Cormac McCarthy

Per generazioni, il taglio delle pietre e la costruzione delle case è stata l’occupazione della progenie Belfair. Non c’è molto di più, come dice il capostipite, Papaw: “Solo il lavoro. Solo il mestiere. Nient’altro. Non c’è mai stato nient’altro. Mi sono sempre chiesto cosa fa la gente al di fuori del suo mestiere. E me lo chiedo ancora”. È un’arte e un modus vivendi che “è stato insegnato. Generazione dopo generazione. Per diecimila anni. Adesso nella memoria di un solo uomo quell’insegnamento è stato accantonato come se non fosse mai esistito. Come se non avesse nessun valore. Questo lui lo sa eppure sembra non curarsene”. Lo scenario è il focolare di una famiglia afroamericana, dove il tormentato Ben ha scelto di adeguarsi all’identità di scalpellino, assecondando convinzioni che vengono tramandate da secoli: “Mio nonno dice che si può imparare com’è fatto un orologio smontandone uno o addirittura che è possibile imparare come costruire una casa buttandone giù un’altra”. È una fatica e una sofferenza, la pietra angolare è un miraggio, però è un impiego onesto che garantisce una posizione precisa per tutti, una posizione, oltre al sostentamento quotidiano. È un particolare da non non trascurare perché la maggioranza delle scene della pièce di Cormac McCarthy avvengono attorno al tavolo della cucina, il più delle volte imbandito per la colazione. È lì che Ben colleziona drammi: prima la scomparsa di Soldier, figlio della sorella Carlotta, poi il suicidio del padre, Big Ben, e la morte del nonno Papaw in una cupa dissoluzione che non risparmia nulla ai Belfair. Forse “il mestiere” non è sufficiente di fronte alle pesanti svolte della vita, forse non basta nemmeno a difendersi: ancora una volta Cormac McCarthy mette i suoi personaggi nelle condizioni di decidere, con limitate alternative, dovute (anche) al colore della pelle. Le frasi sono incise non meno della roccia, mentre la convinzione della famiglia Belfair viene sgretolata. Un passaggio descrive la perfida prosopopea razzista, come raramente è successo. A Louisville, Kentucky, arriva il circo e tutti i bambini hanno sentito che ci saranno le scimmie per cui si avventano nel baracchino delle bibite per chiedere dove andare a trovarle e la risposta è questa: “L’uomo ha abbassato gli occhi su tutti noi, bambinetti neri scalzi e cenciosi come una ceppa piena di ragni ballerini, e ha detto: Se non sapevate tornare indietro, perché siete usciti?”. Nei cinque atti, che purtroppo non hanno avuto molta fortuna (capita anche ai migliori), Cormac McCarthy è nello stesso tempo dentro e fuori la rappresentazione e il doppio di Ben gli consente di affrontare una curva nella storia, che va considerata come una prospettiva aggiuntiva, un’angolatura che permette di vedere la disintegrazione della famiglia Belfair in tutte le sue proiezioni. Nell’idea dello scalpellino di tirare fuori dalla pietra qualcosa che esiste già, si riflette l’impegno dello scrittore nell’inseguire forme che devono essere scoperte, non costruite. C’è una bella differenza. Lo si percepisce nel tono tranchant di Cormac McCarthy, nella disposizione delle sequenze (“L’intento, come vedremo, è quello di porre a distanza gli eventi e collocarli in un passato compiuto”) nell’interazione di Ben con il suo doppelgänger, che apre un altro spiraglio: “Pensare è cosa rara in tutti gli strati sociali. Ma un manovale che pensa, be’, sembra più verosimile che il suo pensiero sia temperato dall’umanità. È più propenso alla tolleranza. Sa che nella vita quello che importa è la vita”. Il taglio è drastico (siamo nei dintorni di Meridiano di sangue) e, a riprova, è sufficiente il punto di vista di Mama, che non sbaglia mai: “Se vuoi puoi farti il tuo piano e recitartelo tra le macerie”. Ecco, il mood che avvolge Il tagliapietre è proprio questo: niente sconti, nessuna concessione, solo parole come sassi.

mercoledì 29 gennaio 2025

Joan Didion

Senza dubbio una delle voci più rappresentative della letteratura americana, Joan Didion è riletta attraverso le Ultime interviste, che in realtà vanno dal 1972 al 2021, campionando un arco di tempo significativo, e non soltanto uno scorcio finale come il titolo lascerebbe credere. Interlocutrice acuta e sensibile, negli incontri prende forma un dialogo ininterrotto: ogni  colloquio una tappa diversa, tutti pieni di schermaglie. Joan Didion è un’ospite affabile, ma tagliente, che non perde mai di vista l’aspetto centrale del confronto, consapevole che “la persona reale diventa il ruolo che ci si è creati”. Lei ha un compito, per non dire una missione perché “il narratore non può raccontarti solo una storia, qualcosa che è successo, per mero intrattenimento. Il narratore deve raccontartela con un motivo” e in filigrana domande e risposte formano anche una specie di manuale di istruzioni riassuntivo per inoltrarsi nella sua biografia e per avvicinarsi al suo lavoro, che poi coincide con la scrittura. Per Joan Didion è soprattutto elaborazione e lo dichiara apertamente: “Per cui se vogliamo capire ciò che pensiamo, dobbiamo lavorarci sopra e scriverne. E l’unico modo di lavorarci, per me, è scriverne”. Oltre all’attenzione al rapporto tra pensiero e scrittura che è una costante, altri temi ricorrenti sono il legame con la California e New York, più avanti il racconto della perdita del marito e della figlia, nonché il suo viaggio in Salvador. In quel frangente dirà, con Sara Davidson: “Non ho mai creduto che le risposte ai problemi umani si trovassero in qualcosa che si potesse definire politico. Pensavo che le risposte se c’erano, si trovassero da qualche parte nell’animo umano”. Il ritorno alle riflessioni sulla scrittura è continuo e assiduo e Joan Didion ci tiene a ribadire: “Non elaboro nulla finché non l’ho scritto”. Se la gestazione dei romanzi, del tempo, delle idee e delle routine sono argomenti su cui si spende con generosità, non mancano chiarimenti sulle sue principali influenze: Hemingway (“Ho capito molto sul funzionamento delle frasi. Come funziona una frase breve all’interno di un paragrafo, e come funziona una frase lunga. La posizione delle virgole. L’importanza di ogni parola”), Conrad (“Le frasi avevano un suono meraviglioso. Ricordo di essermi esaltata molto scoprendo che le frasi più importanti di Cuore di tenebra erano fra parentesi”), James (“È stato importante perché mi ha fatto capire che è impossibile fare la cosa giusta”) nonché quelli avversi (“Non ho mai letto Ragtime. L’ho aperto e mi sono accorta che aveva un ritmo molto pronunciato; quindi, l’ho messo via come un serpente”). È un aspetto su cui ritorna spesso e che la porta a concludere così: “Immagino che tutti i romanzi siano sogni di ciò che potrebbe accadere, o di cosa non vogliamo che accada. Quando ci si lavora, ci si muove come in un sogno. Per cui, in una certa misura, ovviamente, a popolare i tuoi sogni sono sempre gli stessi personaggi”. Alla fine “uno scrittore cerca di trovare la storia” e lei si confida con Dave Eggers: “Mi sembra di non aver fatto tutto nel modo giusto, di poter fare meglio, cose del genere. Dal punto di vista lavorativo, non mi sembra mai di aver fatto le cose per bene. Vorrei sempre averle fatte diversamente, meglio, in modo diverso”. D’altra parte c’è una considerazione più generale che è complementare e altrettanto efficace: “Mi sorprendo sempre di quanto semplici siano le cose che mi rendono felice. Sono felice ogni sera quando passo accanto alle finestre ed esce la stella della sera. Una stella, ovviamente, non è una cosa semplice, ma mi rende felice. Resto a guardarla a lungo. Sono sempre felice, davvero”. Le Ultime interviste sono parte di un lascito che definisce la scrittrice e la scrittura ed è facile essere d’accordo con Patricia Lockwood quando dice che “indizi grandi come una casa ci dicono che siamo di fronte a un soggetto fuori dall’ordinario”. Si era capito.

lunedì 20 gennaio 2025

Paul Bowles

Tangeri: un capolinea, l’ultima spiaggia e nello stesso tempo un crocevia brulicante di vita, immerso nella pioggia e in una nube d’alcol. Nelson Dyar ci arriva da New York come un messaggio in bottiglia. Ha lasciato un posto in banca, fonte di sicurezza e di noia, ed è partito con la certezza che “non doveva sussistere un briciolo di dubbio. Una vita doveva possedere tutte le qualità della terra da cui derivava, più la consapevolezza di possederle”. Per lui, quando sbarca a Tangeri “il passato non si poteva ormai più richiamare, il futuro ancora non era iniziato”. Dovrebbe lavorare nell’agenzia di viaggi di Jack Wilcox, ma il condizionale è d’obbligo perché Nelson Dyar si lascia coinvolgere dalle fitte trame di Tangeri, che Paul Bowles delinea attraverso una concatenazione di frasi che, una dopo l’altra, evocano un destino imprevedibile. Per ogni incontro, Dyar tenta di collegare entità che vede vicine ma che sono distanti, se non contrastanti, provando “la sensazione di irrealtà era troppo forte, dentro di lui e intorno a lui. Acuta come un mal di denti, definita come l’odore dell’ammoniaca, e tuttavia impalpabile, inindividuabile, una grossa macchia sullo specchio della sua coscienza”. Tangeri diventa una bolla effervescente sul punto di esplodere ed è anche una palude dove si vende e si compra tutto: un commercio continuo in un labirinto di vie, scalinate, pertugi, albergi disadorni, bar affollati e fumosi in cui “credere o dubitare dipende dalla volontà di credere o dubitare”. Per tre quarti Lascia che accada (almeno finché lo scenario è Tangeri) è un continuo intersecarsi di appuntamenti ad alto tasso alcolico, dove Nelson Dyar non riesce a distinguere le opportunità dai rischi e si muove in un limbo in cui “ogni cosa avvenuta era troppo incredibile, ed egli la considerava con quella indefinibile, distaccata attenzione con cui si guardano le cose in sogno, quel genere di sogni in cui il più semplice oggetto, ogni movimento, persino la luce del cielo sono gravidi di un muto significato”. Questa specifica condizione, a metà strada, in transito e al limite, lo spinge a varcare una soglia invisibile e a trovare un’opzione per elevarsi e compiere quella decisiva trasformazione per cui ha attraversato l’Atlantico. Accetta un lavoro equivoco e poi uno strano incarico ancora più ambiguo. Trova un compagno e/o complice in Thami: anche lui come Dyar è un reietto, ripudiato dalla famiglia perché ha sposato la figlia di un pastore. I due si incrociano e Dyar vede in Thami la possibilità di lasciare Tangeri con una cospicua somma di denaro. Un colpo solo, e la partita è vinta. La traversata sul mare e il viaggio sulle alture delle scogliere è una delle parti migliori di Lascia che accada in cui Dyar si sente parte di un paesaggio impervio e maestoso, dove “la configurazione del suolo appariva come l’espressione di un dramma nascosto di cui doveva a ogni costo scoprire l’enigma”. In quel momento specifico, il passaggio dall’alcol al kif e all’hascisc genera una condizione ombrosa e pericolosa, che sfocerà in un finale inaspettato. Paul Bowles consente ai protagonisti di Lascia che accada di caracollare in libertà in cerca di qualcosa di indefinito, il più delle volte attratti da corrispondenze improbabili, in particolare verso i numerosi personaggi femminili, non accomodanti e spesso fulcro dell’azione: Eunice Good, intenta a “riempire le pagine dei suoi quaderni di parole, qualche volta persino di idee”, Daisy, madame Papconstante e la contesissima Hadija contribuiscono a sviluppare quell’atmosfera in cui “comunque si agisca, tanto l’individuo che il giorno vanno sempre a finire nell’oscurità” e a rendere Lascia che accada una torbida e irrisolta discesa nella dissoluzione.

mercoledì 15 gennaio 2025

Evan Wright

Tra le prime forze di terra che hanno inaugurato l’invasione dell’Iraq nella primavera del 2003, i marines non hanno mai messo in discussione i motivi, le armi di distruzione di massa che non esistevano o il controllo delle forniture petrolifere o qualsiasi altro obiettivo geopolitico dichiarato o non. Il loro comandante James Mattis (soprannominato Mad Dog, cane pazzo; nome in codice: Chaos) ha mandato il battaglione First Recon, un’unità d’élite addestrata ad arrivare sul campo di battaglia via mare, a solcare il deserto a bordo di veicoli su quattro ruote. Una scelta che è già abbastanza bizzarra, ma non è l’unica. Non preparati, non attrezzati, per i marines ogni singolo dettaglio è una questione, a partire dalle necessità primarie: bere e mangiare, dormire, sopravvivere. Eseguono gli ordini, che spesso sono contraddittori, il cibo e l’acqua sono scarsi, il movimento dal Kuwait a Baghdad è a singhiozzo, tutta la missione sembra fatta apposta per finire di proposito in un’imboscata, come se fossero esche. Si scoprirà, in effetti, che il tragitto del First Recon rispetto alle altre forze statunitensi e britanniche è un vero e proprio diversivo. Sono accompagnati da un reporter, Evan Wright, che riesce a cogliere gli aspetti drammatici e a tratti surreali che avvolgono tutta l’operazione, a partire dalla cultura stessa del corpo dei marines, che si alimenta di una specie di argot farcito di insulti, improperi, bestemmie e volgarità assortite, il più delle volte razziste e omofobe. Senza un attimo di tregua: il linguaggio crudo, rozzo e spietato è l’elemento trainante di Generation Kill e nella rappresentazione di Evan Wright è un non stile: la scrittura è scabra, immediata, senza filtri e, se non altro, appropriata al contesto. Nonostante sia un giornalista embedded, con tutte le relative restrizioni, osserva e prende nota in tempo reale delle tempeste di sabbia, delle strade disseminate di spazzatura, rottami e cadaveri, dei cani randagi, degli stop and go in mezzo alla sabbia nonché dei combattimenti, del fuoco amico e delle vittime civili. Le regole di ingaggio sono in contrasto con l’istinto e la memoria muscolare dovuta all’addestramento e i marines hanno a disposizione un arsenale spaventoso che, oltre alle armi personali, comprende elicotteri, artiglieria, carri armati e bombardieri. I tragici risultati li conosciamo ed Evan Wright ha la premura di approfondire le condizioni folli ed estreme in cui si ritrovano i marines del First Recon, età media poco più di vent’anni. Spinti da un “adolescenziale senso di invulnerabilità” condito da talismani, precauzioni, superstizioni (compresa l’ossessione per le caramelle dalle razioni da campo che vengono scartate perché portano sfortuna), costretti a passare la notte nelle buche e le giornate esposti agli elementi, alle incombenze delle catene di comando, nonché ai colpi di un nemico sfuggente o ai proiettili vaganti degli alleati, i marines sono così tesi e nervosi da scambiare una scoreggia per un attacco di mortaio. Non manca nemmeno l’aspetto più comico, in Generation Kill: l’impossibilità di distinguere le notizie reali dalle voci, dalla propaganda e dalla “nebbia di guerra” non impedisce a Evan Wright di tessere una sottile trama incisa dialogo per dialogo. Ne viene fuori una testimonianza a distanza ravvicinata dentro una brutale ordalia di violenza senza fine a cui, dal suo punto di vista, concede solo l’onore delle armi. Durissimo, ma onesto.

venerdì 10 gennaio 2025

Peter Straub

Qualcuno ha approfittato delle storie e le storie si sono ribellate perché hanno un potere incontrollabile ed è vero che “abbiamo tutti bisogno d’essere razionali”, ma poi qualcosa sfugge al controllo e l’imprevedile, l’inafferrabile e l’inaudito scatenano il caos contro la realtà. La Chowder Society di Frederick alias Ricky Hawthorne (e della moglie Stella), John Jaffrey, Lewis Benedikt, Sears James, ed Edward Wanderley che è morto giusto un anno prima, ha un grossa responsabilità per quello che accade nei giorni di Natale, a Milburn, un villaggio suburbano nello stato di New York. L’inverno è già abbastanza allucinante, ma il circolo di letture e racconti corroborato dal whisky si trova a confrontarsi con le ombre del passato e allora chiede aiuto a Don Wanderley, nipote dell’illustre membro scomparso e scrittore, che è un po’ (suo malgrado) l’anfitrione e la guida di Ghost Story. Combattuto perché “spesso le cose terribili che immaginava, le cose peggiori, non succedevano; sul più bello il mondo si scuoteva e ogni cosa tornava a posto”, si ritrova nell’epicentro di un lotta impari al punto di avere “la sensazione che tutto ciò che succede abbia un rapporto diretto con il mio scrivere”. Un’intuizione che sarà molto utile nel corso degli eventi. L’evocazione di spiriti e di misteri è l’inizio di un big bag spaventoso. Milburn viene attaccata, ma è un’implosione, a ben vedere: le pericolose relazioni sotterranee e le tensioni accumulate emergono all’unisono e la città pare attraversata da un’onda di follia. Don Wanderley, che resta il più accorto tra i protagonisti di Ghost Story, si premura di avvisare: “Vedete, abbiamo luoghi in cui occorre stare attenti di notte, gli anni non ci hanno lasciato tutti incartapecoriti e innocenti”. Si aprono porte reali e oniriche e tutta una progenie di femme fatale si incarna via via in Alma Mobley, Anna Mostyn, Ann-Veronica Moore ed Eva Galli, figure evanescenti e crudeli assecondate da “creature della notte” che affollano sogni e incubi. Quello che hanno fatto (e nascosto) negli anni della gioventù gli adepti alla Chowder Society cambia di prospettiva e così i fantasmi diventano delle possibilità come se “si fossero ormai da molto inseriti in un tempo in cui la follia forniva un quadro degli avvenimenti molto più attendibile della razionalità”. Cliché, simbolismi e metafore del caso ci sono tutti e la dissoluzione riguarda vittime e carnefici, in un finale tumultuoso e convulso, uno spettacolare capitolo di un “interminabile fumettone dei diseredati d’America” dove non c’è differenza (o quasi) tra vivi e morti, a riprova, come sostiene Peter Straub, che “le storie dell’orrore funzionano quando sono grandiose e sgargianti, quando la loro dinamica non viene ostacolata”. Ghost Story è proprio uno di quei casi e, dentro lo sviluppo di un moderno gotico, c’è un compendio di tutti i capisaldi del soprannaturale: si trovano Vincent Price ed Edgar Allan Poe e La notte dei morti viventi ed è attraversato da vampiri, lupi mannari, forme mutanti mostruose, affamate e perse nei secoli e, naturalmente, dozzine di spettri che scorrazzano impuniti per le strade di Milburn. È  allora che Don Wanderley capisce come “nella vita nulla si risolve, nulla quadra” e, non a caso, con lui tutti i cittadini terrorizzati “udirono la musica echeggiare nella città, squilli di tromba e sassofoni, la musica dell’anima nella notte, la liquida musica del ventre d’America” che va a sommarsi alle canzoni di Dolly Parton, Loretta Lynn, Willie Nelson, Count Basie, Aretha Franklin e Benny Goodman e con questa colonna sonora, una volta arrivati in fondo, si comprenderà anche l’enigma di una bambina con un uomo e un pugnale con cui Ghost Story era cominciato.

giovedì 9 gennaio 2025

Louise Glück

Una lingua piana, parlata, semplice che si adatta alla quotidianità di tutti i giorni è la materia specifica della poesia di Louise Glück e, a maggior ragione, nell’avvicinarsi a Una vita di paese è, in pratica, una scelta tanto obbligata quanto convinta. Nell’osservazione meticolosa della vita di una small town, il lavoro di descrizione e memoria ha bisogno di rinnovare le motivazioni, ben sapendo che “ogni persona ripone la propria speranza in un luogo diverso”. Questa collocazione nella vita in campagna, in corrispondenza della terra, offre la dimensione ideale per una ricognizione ravvicinata delle interazioni tra gli abitanti e l’habitat circoscritto compresi gli animali (anche i lombrichi), le piante (l’ulivo, tra gli altri) e gli elementi del territorio (il fiume, più spesso di tutti). Non solo hanno la stessa dignità degli esseri umani, sono anche l’occasione propizia per ridefinire un punto di vista, come poi succede con l’apparizione dei Pipistrelli: “Ci sono due tipi di visione: vedere le cose, che rientra nell’ottica, e di contro vedere oltre le cose, che deriva dalla privazione”. Questo è un passaggio particolarmente rivelatorio che colloca Louise Glück in un ambiente limitato, circoscritto e molto preciso da dove può scrutare un’idea, quella che rende esplicita in Crepuscolo: “Nella finestra, non il mondo, ma un paesaggio squadrato che rappresenta il mondo. Le stagioni cambiano, ciascuna visibile solo per alcune ore al giorno. Cose verdi seguite da cose dorate seguite dal bianco, astrazioni da cui derivano piaceri intensi, come i fichi in tavola”. Le osservazioni toccano lo scorrere dei periodi di passaggio in passaggio come avviene in Marzo (“Il sole batte sulla terra, che lussureggia. E ogni inverno, è come se la roccia sotterranea si sollevasse sempre più e la terra diventasse roccia, fredda e respingente”) o semplicemente dell’avvicendarsi del giorno con la notte in Abbondanza (“La luna è piena. Dal campo arriva un suono strano, forse il vento”) come l’accorgersi di un ritmo che supera i calendari, così descritto in Alba: “Anni e anni, ecco quanto tempo trascorre. Tutto in un sogno”. Una vita in paese consente di valorizzare atti e scenari bucolici: per esempio, raccogliere e “bruciare le foglie” diventa una sorta di ritornello, o forse un rituale che si ripresenta spesso, quasi a ricordare i limiti, ovvero i contorni, i cicli, le radici. La forma è sempre diretta, immediata: i versi di Louise Glück trasmettono come non mai un senso di appartenenza fuori dal comune espresso in Solitudine: “Ora ritorniamo a essere come eravamo, animali che vivono nell’oscurità senza linguaggio o visione”. Le coordinate partono un angolo remoto per arrivare a una dimensione più ampia, e in gran parte da esplorare. Ancora in Crepuscolo Louise Glück vede e sente un “mondo visibile, linguaggio, stormire di foglie nella notte, odore d’erba alta, di fumo di legna”, e siamo di nuovo nell’ambito locale e rurale, più vicino alla terra che al cielo, ma in Una vita di paese le sorprese, a saperle trovare, sono dietro l’angolo, come specifica in Trebbiatura: “Quella volta nel bosco: quella era la realtà. Questo è il sogno”. Le parole, anche plain spoken, offrono un’altra possibilità, molto più grande, se non proprio universale.