Otto ricercatori vengono reclutati dall’Università di New York per un ambizioso programma di indagine sulla coscienza e con il disegno, a latere, di sviluppare “una specie di grande mappa cerebrale”. Il numero è lo stesso dei principali pianeti del sistema solare (e non è una coincidenza) e tra loro spicca Kierk Suren, un un personaggio che muta nel corso della storia. Da giovane promettente a homeless a outsider, crede di aver sfiorato una teoria della coscienza, al di là delle connessioni scientifiche. Il tormento di Kierk è una questione con una deriva più filosofica: non a caso, è l’unico che, occupandosi anche di letteratura, comprese, tra le altre, le letture di Una banda di idioti di John Kennedy Toole e Infinite Jest di David Foster Wallace, arriva alla considerazione che “il problema non è nel mondo esterno, ma in chi lo osserva”. Per un breve momento, il gruppo di giovani scienziati si gode le ambizioni, le discussioni i seminari e le libagioni in una New York molto cool ed effervescente, per quanto avvolta in una cappa d’afa opprimente, visto che Le rivelazioni (nella precisa traduzione di Olimpia Ellero) è ambientato in un mese estivo. Quando uno di loro, Atif Tomalin, scompare investito dalla metropolitana in circostanze ambigue, non solo restano in sette che è (come si sa) un numero particolare (ed elemento portante della suddivisione del romanzo che segue un’agenda settimanale), ma è la svolta decisiva. Nel CNS, Center for Neural Science, dove sono impiegati, succedono altre cose che non del tutto chiare, ma bisognerà scoprirle da soli. Di sicuro, ci sono primati con il cervello scoperchiato e Carmen (un’altra ricercatrice con un passato di modella) comincia a sospettare che stiano lavorando a qualcosa di più estremo, oltre alla vivisezione (di quello si parla) dei macachi. Al di là delle inevitabili questioni etiche, Kierk o si trova ancora più ai margini insofferente alle regole, alla gerarchia e alla burocrazia, ma soprattutto perché segue intuizioni tutte sue nell’elaborazione della coscienza, arrivando a pensare che “l’esperienza viene prima, e durerà più a lungo, di qualsiasi scienza”. Erik Hoel non teme la complessità e con Le rivelazioni bisogna confrontarsi con organoidi e qualia, ontologia e mitologia, feedback e neuroimagining, e persino con gli scontri di Toronto del G20. Il suo vocabolario oltre a essere erudito e raffinato, spesso è specialistico e ostico, ma spostando il sipario razionale, s’intravede senza fatica tutto un intreccio di rapporti labili e fragili, una somma di solitudini che non fanno un intero. Gran parte del romanzo si snoda tra porte e corridoi, oscurità e sogni, ombre e allucinazioni, come un labirinto borgesiano o una destrutturazione di Don DeLillo (compreso il “rumore bianco” citato due volte di fila), finché nei meandri del CNS non progredisce l’idea che “la nostra coscienza è cosa si prova a essere noi stessi”. A quel punto le maschere si dissolvono e mentre il ritmo degli eventi prende la piega di un thriller, Kierk Suren scopre, nonostante le sue capacità, tutti i limiti delle sue tesi e, infine, “la verità è che gli sembra di maneggiare dei fogli di legno di balsa in mezzo alle raffiche di vento”. Dato che non sfuggirà l’origine del suo nome, pare giusto ricordare, in parallelo, quello che diceva Søren Kierkegaard ovvero, “ciò che veramente mi manca è di capire chiaramente me stesso, quello che devo fare, non quello che devo conoscere”. Partiti dai sotterranei, Kierk e Carmen lo scopriranno sui tetti con vista panoramica su New York che gli “appare come una promessa fatta un tempo, poi infranta, poi fatta di nuovo, qualcosa di perennemente imminente che non arriva mai”. Eccessivo e rocambolesco come si addice a un esordio, Le rivelazioni è un notevole labirinto dove tutto resta in sospeso, escluso l’amore (che appartiene a quella gamma dove bisogna “avere il controllo di qualcosa senza nemmeno comprenderlo”) e i misteri non vengono risolti, ma resi soltanto più interessanti.
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