109, 140, 142, 72, 136, 132, 102: per Kiese Laymon, Il giusto peso fluttua nell’ossessione verso la bilancia, trasformata in una sorta di specchio alternativo e impietoso. Essere americano ed essere nero (o, meglio: non essere bianco) è il dilemma che lo tormenta fino ad abusare del proprio corpo. Ingrassare senza senso, dimagrire fino a svenire, una lotta continua con l’attività fisica e il frigorifero: Kiese Laymon cresce bulimico e anoressico, confrontandosi ogni giorno con due generazioni femminili, quella della nonna che è la testimonianza vivente dal profondo del Mississippi e quella della madre, che l’ha cresciuto da single, ed è la destinataria della storia così come viene raccontata. La voce di Kiese Laymon è cruda, aspra e martellante, ed estrema dato che non fa sconti né a se stesso, né a nessun altro, lettori compresi. Ogni pagina richiede attenzione e cautela, perché Il giusto peso non concede altro, oltre alla bugia che alimenta per ritrovare una connessione con la madre con una sorta di confessione riparatrice. La tensione è costante e opprimente, il rapporto con gli altri, ragazzi e ragazze come lui, è mediato dal fallimento, dal rischio implicito ed esplicito della delusione, se non proprio dalla certezza di vivere in un’America divisa e desolata dove “nessuno, nella nostra famiglia, e pochissima gente di questa nazione, ha il minimo desiderio di fare i conti col peso del passato, il che significa che nessuno nella nostra famiglia, e pochissima gente di questa nazione, vuole essere libero”. Il mutevole e frammentario dialogo a distanza con la madre svela la fragilità delle reciproche promesse, l’insistenza nella necessità di eccellere, di non sbagliare mai (“Sapevo che non c’era modo di non perdere, a meno che non ci fossimo ripresi ogni singolo brandello di ciò che ci era stato portato via”) e di mantenere la rotta, anche quando una rotta non c’è, e intorno a Kiese Laymon continuano a prendere forma solo dubbi e incertezze, prevaricazioni e ingiustizie. Mentre negli schermi televisivi si susseguono Rodney King, l’11 settembre, Katrina e altri drammi americani, non ultimo lo stillicidio di corpi neri nelle strade, Kiese Laymon si laurea, si scontra con le istituzioni (a partire dalla stessa famiglia), si lascia travolgere dal gioco d’azzardo, come a voler ipotecare un futuro, come a voler scommettere oltre la propria natura che lo costringe a un’ordalia senza limiti e senza meta. La sopravvivenza ruota attorno alla lettura e alla scrittura che Kiese Laymon affronta come se si stesse aggrappando ad un ultimo appiglio: “Mi piacevano molto quelle frasi, ma non capivo bene la differenza tra scrivere a e scrivere per qualcuno. Nessuno mi aveva mai insegnato a scrivere a e per la mia gente. Mi avevano insegnato a scimmiottare Faulkner, e a scrivere a e per i miei professori. Che erano tutti bianchi. Quando scrivevo a te, lo facevo con la speranza che quello che scrivevo fosse sufficiente a risparmiarmi le botte”. Richard Wright e James Baldwin, Toni Cade Bambara ed Eudora Welty (“Eudora Welty non ne sapeva un accidente dei neri del Mississippi, ma ne sapeva abbastanza su se stessa da prendersi gioco dei bianchi nella maniera più feroce e spietata che avessi mai letto”) gli fanno capire che “la revisione, la rilettura, la comprensione, lo studio casalingo, l’immaginazione” sono indispensabili (e irrinunciabili) nella creazione di un’identità perché “correggere le parole significava correggere i pensieri. E correggendo i pensieri si plasmavano i ricordi”. Alla fine, la forma del corpo, sofferente, piegato, frustato, asseconda quella della scrittura: Il giusto peso è un memoir che non lascia scampo e che, in modo molto appropriato, si conclude con quella che è, a tutti gli effetti, un’invocazione laica e onesta nel mostrare tutto il suo dolore.
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