Immedesimandosi nelle fitte paludi di una separazione che è contatto, contrapposizione, reclamo e rimpianto, Louise Glück ha visto in Meadowlands il paesaggio ideale dove riflettere perdita e sofferenza: “Quel che penso è che dovremmo guardare al nostro ambiente con realismo, per quello che è nel presente”. L’immagine è chiara e forte e il riferimento va subito al titolo, rispetto al martoriato territorio di acquitrini fluviali del New Jersey, che comprende le connessioni ornitologiche rese esplicite in Parabola del volo: “È importante sapere dove vanno gli uccelli? È importante sapere anche di che specie siano? Se ne vanno via da qui, questo è quel che conta, dapprima i loro corpi, poi le tristi grida. E da quel momento, non esistono più per noi. Devi imparare a pensare alla nostra passione nello stesso modo. Ogni bacio era vero, poi ogni bacio è scomparso dalla faccia della terra”. Questo continuo ricorrere alla flora e alla fauna è una costante nelle poesie di Meadowlands e anche La parabola dei cigni si esprime in quel senso, arrivando a concludere che “prima o poi in una lunga vita insieme, ogni coppia si imbatte in una simile emergenza, in un qualche dramma che risulta dannoso. Questo accade per un motivo: per mettere alla prova l’amore ed esigere una nuova modulazione dei tuoi elementi complessi”. Tra i protagonisti si ritagliano uno spazio tutto loro gli animali domestici: il gatto (prima di tutto) e i cani che evidenziano il tran tran matrimoniale che suggella Il desiderio del cuore, lo imprigiona e lo annichilisce (e non è mai chiaro fino in fondo, cosa succede). Con loro, Louise Glück compone un capolavoro di equilibrio, dialogando tra i contrasti: amore/odio, presenza/assenza, uomo/donna, volto/maschera vengono sommati in un ecosistema che comprende Maria Callas, Wallace Stevens, Gustave Flaubert, i dettagli personali e autobiografici, ma più di tutto il continu richamo all’Odissea, che fluttua in parallelo. Le gesta di Penelope, Circe, Telemaco, Ulisse conducono in un mare aperto e pieno di incognite dove l’affollata poesia di Meadowlands si interroga sulle crepe (“Non ci fu niente di veramente difficile perché si sviluppano le abitudini, le compensazioni per le assenze e le omissioni percepite”) e sulle ultime chance (“Sento con certezza che c’è dentro di te qualcosa di umano, che si può avvicinare parlando”) di un legame ormai incrinato, a cui resta soltanto l’opportunità di “un’altra poesia” e l’ammissione di Louise Glück per cui “è dunque vero, dopo tutto, non è soltanto una regola dell’arte: se cambi la tua forma cambi la tua natura. Questo fa il tempo per noi”. Viene in aiuto solo Il fantasticare di Telemaco: “Suppongo che col tempo o si diventa un mostro oppure l’amante vede quel che si è”. Con questa asserzione si archivia la frattura e con Nostos si riportano i frammenti, i resti e gli avanzi su una sponda agli albori di tutto, visto che “guardiamo il mondo una sola volta, nell’infanzia. Il resto è ricordo”. Meadowlands è “una storia di inganni e innocenza”, di mutazioni e di piedi freddi, e dato che “giochiamo a scegliere la musica. La forma preferita”, si conclude citando Otis Redding perché “il solo dolore simile al mio è il dolore di Otis” e anche se Louise Glück non lo dice, l’album che risuona “attraverso il cortile, molto in sordina” deve essere per forza Otis Blue.
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