giovedì 28 dicembre 2017

Patti Smith

Un ritratto dell’artista giovane con più cose da dire che strumenti per dirle: Babel condensa il periodo più importante di Patti Smith, quello che va dal 1974 al 1978, quando il suo grido di battaglia era, come scriveva in Neo Boy: “Tutto è merda. La parola arte deve essere ridefinita. Questa è l’età nella quale ognuno crea”. Babel risolve l’incognita fecale con una gamma impropria di soluzioni: gran parte delle canzoni confluite in Radio Ethiopia ed Easter, frammenti di prosa, appunti, poesie, stralci di un diario e di un epistolario che sono ancora un work in progress. Sono tempi vorticosi e travolgenti e Babel ne è l’immagine fedele, un riflesso naturale e spontaneo con tutto il disordine e il caos di un’alluvione di parole in cerca di un casa, ancora indisciplinate, non assoggettate, nemmeno uniformi. Un canovaccio che raccoglie l’energia e l’entusiasmo da cui poi Patti Smith ha attinto proiettando la sua scrittura su forme più organiche, limate e adeguate alle riflessioni della maturità ma che in Babel erompe nella certezza che “il potere della bellezza viene sottovalutato”. Nell’irruenza dei vent’anni, Patti Smith mette in mostra con forza sogni e visioni ricorrenti, lo slang delle strade di New York e quell’anelito disperato per l’espressione artistica in ogni sua variante che l’ha sempre distinta. “Il montaggio di esperienze” richiama gli eroi e i punti di riferimento che resteranno inamovibili: Rimbaud, Genet, Brancusi, Bresson, Caruso (“L’opera è verità e Caruso la regina”), Pasolini (“Vittima dei fascisti e di marchettari e della purezza della sua arte”), per affermare con convinzione che “siamo tutti figli di Jackson Pollock”. Sono colonne portanti dell’ambizioso impianto di Babel che si ritroveranno spesso più in là negli omaggi di Patti Smith perché “noi viviamo per un periodo di tempo lunghissimo nella nostra immaginazione”, e quella è la materia di cui ci nutriamo. Lo stile, la forma in sé, risente da una parte di un convitato di pietra che aleggia su ogni pagina, dove tagli e cuciture riportano a William Burroughs, e dall’altra dalla sanguigna urgenza di Patti Smith che lancia segnali inequivocabili: “Ho voglia di muovermi subito, di innamorarmi”. L’anima e l’adrenalina di Babel sono quell’irruenza che poi è sfumata con il suo ritiro dalle scene, la grande bandiera americana che adornava il palco ripiegata un’ultima volta, le chitarre riposte, una famiglia a cui dedicare il futuro. Nell’immediato di Babel c’è il rock’n’roll che “come la scultura, è il corpo solido di un sogno. E’ un’equazione di volontà e visione”. All’appello rispondono l’onnipresente Dylan (e i suoi animali), il Patti Smith Group, Tom Verlaine, i Blue Öyster Cult che riprenderanno Fire Of Unknown Origin, Little Richard e Mick Jagger, o meglio tutto l’universo irraggiungibile dei Rolling Stones con la rilettura di Sister Morphine e la dedica a Marianne Faithfull, figura eminente tra le donne di cui Patti Smith ha celebrato drammi e tributi. I ritratti delle sue eroine, Georgia O’Keeffe, Edie Sedgwick, Giovanna D’Arco, e poi Jenny e Judith, sono parti di un processo di identificazione perché se è vero che “l’arte ha bisogno di luce”, è altrettanto necessaria una voce femminile che, per logica estensione, rimanda a lei. Aveva già capito che “l’artista preserva se stesso. Mantiene la sua spavalderia. E’ intossicato dal rituale così come dal risultato”. Intuizione giusta, applicazione famelica.

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