Un
ritratto dell’artista giovane con più cose da dire che strumenti
per dirle: Babel condensa il periodo più importante di Patti
Smith, quello che va dal 1974 al 1978, quando il suo grido di
battaglia era, come scriveva in Neo Boy: “Tutto è merda. La
parola arte deve essere ridefinita. Questa è l’età nella quale
ognuno crea”. Babel risolve l’incognita fecale con una
gamma impropria di soluzioni: gran parte delle canzoni confluite in
Radio Ethiopia ed Easter, frammenti di prosa, appunti,
poesie, stralci di un diario e di un epistolario che sono ancora un
work in progress. Sono tempi vorticosi e travolgenti e Babel
ne è l’immagine fedele, un riflesso naturale e spontaneo con tutto
il disordine e il caos di un’alluvione di parole in cerca di un
casa, ancora indisciplinate, non assoggettate, nemmeno uniformi. Un
canovaccio che raccoglie l’energia e l’entusiasmo da cui poi
Patti Smith ha attinto proiettando la sua scrittura su forme più
organiche, limate e adeguate alle riflessioni della maturità ma che
in Babel erompe nella certezza che “il potere della bellezza
viene sottovalutato”. Nell’irruenza dei vent’anni, Patti Smith
mette in mostra con forza sogni e visioni ricorrenti, lo slang delle
strade di New York e quell’anelito disperato per l’espressione
artistica in ogni sua variante che l’ha sempre distinta. “Il
montaggio di esperienze” richiama gli eroi e i punti di riferimento
che resteranno inamovibili: Rimbaud, Genet, Brancusi, Bresson, Caruso
(“L’opera è verità e Caruso la regina”), Pasolini (“Vittima
dei fascisti e di marchettari e della purezza della sua arte”), per
affermare con convinzione che “siamo tutti figli di Jackson
Pollock”. Sono colonne portanti dell’ambizioso impianto di Babel
che si ritroveranno spesso più in là negli omaggi di Patti Smith
perché “noi viviamo per un periodo di tempo lunghissimo nella
nostra immaginazione”, e quella è la materia di cui ci nutriamo.
Lo stile, la forma in sé, risente da una parte di un convitato di
pietra che aleggia su ogni pagina, dove tagli e cuciture riportano a
William Burroughs, e dall’altra dalla sanguigna urgenza di Patti
Smith che lancia segnali inequivocabili: “Ho voglia di muovermi
subito, di innamorarmi”. L’anima e l’adrenalina di Babel
sono quell’irruenza che poi è sfumata con il suo ritiro dalle
scene, la grande bandiera americana che adornava il palco ripiegata
un’ultima volta, le chitarre riposte, una famiglia a cui dedicare
il futuro. Nell’immediato di Babel c’è il rock’n’roll
che “come la scultura, è il corpo solido di un sogno. E’
un’equazione di volontà e visione”. All’appello rispondono
l’onnipresente Dylan (e i suoi animali), il Patti Smith Group, Tom
Verlaine, i Blue Öyster Cult che riprenderanno Fire Of Unknown
Origin, Little Richard e Mick Jagger, o meglio tutto l’universo
irraggiungibile dei Rolling Stones con la rilettura di Sister
Morphine e la dedica a Marianne Faithfull, figura eminente tra
le donne di cui Patti Smith ha celebrato drammi e tributi. I ritratti
delle sue eroine, Georgia O’Keeffe, Edie Sedgwick, Giovanna D’Arco,
e poi Jenny e Judith, sono parti di un processo di identificazione
perché se è vero che “l’arte ha bisogno di luce”, è
altrettanto necessaria una voce femminile che, per logica estensione,
rimanda a lei. Aveva già capito che “l’artista preserva se
stesso. Mantiene la sua spavalderia. E’ intossicato dal rituale
così come dal risultato”. Intuizione giusta, applicazione
famelica.
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