La
storia di Deep Blues coincide con quella di Robert Palmer.
Figlio di un’era in cui raccontare un disco aveva una sua logica,
Robert Palmer applicava alla critica musicale lo stesso spirito di
ricerca che lo alimentava nella vita. Ruotava tutto attorno alla
musica: suonata (al clarinetto e al sassofono), raccontata, filmata.
A sua volta, Deep Blues è stato l’elemento che ha
condensato tutte le passioni di Robert Palmer tanto è vero che il
libro si è rivelato una porta aperta verso l’omonimo film e la
relativa colonna sonora. Al centro di Deep Blues, c’è il
Delta, il cuore del blues, il punto di partenza e di arrivo, estremi
che sono stati ripercorsi proprio sul campo. Una lunga traversata a
ritroso, nel tempo e tra due continenti: la povertà (ancora oggi),
la schiavitù, l’Africa. Non è soltanto un viaggio metaforico: tra
l’altro avendo accompagnato, con Brian Jones alla scoperta dei
Master of Jajouka, Robert Palmer ha conosciuto a fondo le radici
africane del blues ed essendo cosciente che si tratta di “una
forma letteraria e musicale” proiettata da “una fusione di musica
e poesia ottenuta a una temperatura emozionale altissima” si è
avvicinato, se non altro, a circoscriverne il DNA culturale. L’ha
fatto attraverso il contatto diretto con i protagonisti che, a
partire da Muddy Waters, hanno messo a disposizione la loro
testimonianza vitale per guidare Robert Palmer in “un enorme campo
di sentimenti”. Il suo lavoro, in Deep
Blues,
si rivela un ibrido altrettanto denso: le storie orali raccolte on
the road sono corroborate da un’attentissima dissertazione sulle
condizioni sociali e politiche in cui il blues ha preso forma perché
la sua originalità “non è questione di sedersi a
creare dal nulla le canzoni. Anzi un blues singer con un pezzo fatto
interamente o quasi di frasi, versi e strofe rubati rivendicherà
ugualmente come sua la canzone, e avrebbe ragione. Da un punto di
vista lirico, l’arte di scrivere canzoni blues equivale al
combinare frasi, versi e strofe che hanno un’eco emozionale
compatibile formando un insieme che rifletta le esperienze, i
sentimenti e gli umori del cantante e quelli degli ascoltatori. E più
spesso che no il risultato è assolutamente originale”. La vera
scoperta di Robert Palmer è quella che non dichiara, almeno non in
modo esplicito, ed è stata nell’aver colto la contemporaneità
della dimensione collettiva e universale del blues con l’espressione
individuale, quest’ultima riassunta così: “Ogni artista blues
attinge a un coacervo di queste fonti e all’infuenza di altri
artisti blues, e tira fuori qualcosa che è tipicamente suo. L’unico
modo per definire il blues con una certa precisione sarebbe
considerare il repertorio di ogni artista blues”. Il suo è stato
qualcosa di più di un tentativo di descrivere qualcosa
di illimitato. Affascinato dalle atmosfere del Delta, trascinato nei
misteri lungo i crossroads (e la sua interpretazione sui presunti
patti mefistofelici merita di essere assunta a standard per tutte le
analisi prossime venture), coinvolto al punto di rendersi conto che
“il blues più deep chiede ai suoi ascoltatori di affrontare
le proprie gioie, dolori, brame e, soprattutto, la propria
mortalità”, Robert Palmer non tornò più a casa, lasciandoci Deep
Blues quasi come un testamento spirituale.
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