giovedì 21 dicembre 2017

Andre Dubus

Quando Blind Boy Grunt alias Bob Dylan cantava The Death Of Emmett Till, rileggeva un drammatico episodio dell’agosto 1955, avvenuto nel Mississippi: di fatto un linciaggio rimasto senza colpevoli, che, con il suo grave senso di ingiustizia, ha segnato uno spartiacque nella discriminazione razziale. Uno dei versi di The Death Of Emmett Till riassumeva così l’amarezza e il disorientamento di fronte a quello spietato omicidio, e alla sua ambigua e tragica coda: “Se non dite niente davanti a una cosa come questa, contro un crimine così ingiusto, allora i vostri occhi sono pieni della terra dei cadaveri e la testa l’avete piena di polvere”. Sono parole che tornano spontanee quando, nelle discussioni dei protagonisti di Le morti in mare (il primo racconto di Un’ultima inutile serata), riappare il fantasma di Emmett Till. Gerry viene dal bayou, è cattolico, con ascendenze francesi, mentre Willie è afroamericano e arriva da Philadelphia. Insieme si trovano a condividere una cabina sulla portaerei Ranger in qualità di ufficiali della marina degli Stati Uniti. La fragile armonia che si sviluppa tra loro viene messa a dura prova da un flusso continuo di alcol, incidenti verbali, scontri fortuiti, finché Gerry non ammette il disagio: “Ho l’impressione che di notte il mondo ci abbandoni. Smettiamo di vederlo. Scompare e rimaniamo con quel poco che resta di visibile; e senza quelle distrazioni che il giorno ci rivela, la nostra vista non è solo limitata, ma si affina e si concentra su ciò che per la maggior parte di noi è il mondo, noi stessi”. Non è solo per la condizione notturna che Le morti in mare determina la natura dei racconti che seguono. E’ come se i racconti si incastrassero uno nell’altro, per via di alcuni temi ricorrenti, dalla guerra del Vietnam (la portaerei Ranger, infatti, è stata una delle principali navi impiegate in quel conflitto) che è il substrato, con un sentore di sconfitta bruciante, di Vestito come foglie d’estate alle contraddizioni del melting pot americano che emergono di nuovo in Dopo la partita e, in parte, in La terra dove sono morti i miei padri. E’ un racconto dove prendono forma persino dei contorni noir, a sua volta collegato a Le morti in mare perché entrambi sono imperniati attorno a un omicidio, per quanto in gran parte accidentale. Senza alcun timore, Andre Dubus prosegue come se non avesse paura del dolore, non temesse l’ignoto e con Molly e Rose, due racconti tra i suoi più belli e dolenti in assoluto, mostra, una volta di più, una spiccata sensibilità per i ritratti femminili. Il quadro dell’adolescenza di Molly, alla spasmodica ricerca di quella sensazione “che si prova quando ci si sente amati”, si scontra con l’avviso della madre, Claire: “Quando non sei amata, è peggio che fare parte di una folla. E’ come se non avessi più corpo. Diventi astratta: c’è solo la tua voce dentro di te che ti parla, e ti senti come se non occupassi neppure lo spazio su cui poggi i piedi, come se fossi senza peso. Sei in un punto sulla terra, ma i tuoi piedi sono in aria”. Questo, a tutti gli effetti, è l’avvio al passaggio successivo: Rose è un racconto straziante, dove, con l’intercalare degli aneddoti nel corpo dei marines, si sprofonda nella cupa (e violenta) dissoluzione di una famiglia in cui la protagonista, (la stessa Rose), arriva al punto in cui non può tornare indietro. Una condizione tipica, tra l’altro, dei racconti di Raymond Carver, la cui stima per Andre Dubus è nota. Il lettore è avvisato perché “se diamo tutto ciò che si può dare”, come cantava ancora Bob Dylan in The Death Of Emmett Till, è facile varcare la soglia dell’imprevedibilità e scoprire che, in effetti, anche la realtà “è tutto un mistero”. Con Andre Dubus succede perché è uno scrittore generoso, che rimane nell’ombra e lascia avanzare i suoi personaggi, ma non di meno ne condivide i drammatici destini, come se fosse lì, con loro, cercando di capire dove può spuntare la luce in fondo a Un’ultima inutile serata.

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