lunedì 27 novembre 2017

Philip Dick

L’antologia di saggi raccolta in Se vi pare che questo mondo sia brutto è una piccola porzione della percezione di Philip Dick, ma tocca e approfondisce uno dei temi più sensibili, il rapporto tra l’umanità e lo sviluppo tecnologico. I primi due capitoli, in particolare L’androide e l’umano e la sua successiva propaggine, Uomo, androide e macchina, che risalgono rispettivamente al 1972 e al 1976, rivolgono l’attenzione a quell’incognita che si manifesta con “una qualità meccanica, riflessa”. Philip Dick è esplicito nel manifestare i suoi dubbi davanti l’evoluzione a tappe forzate del cosiddetto progresso perché “forse, in realtà, stiamo assistendo a una graduale fusione della natura generale delle attività e delle funzioni umane con le attività e le funzioni di ciò che noi umani abbiamo costruito e di cui siamo circondati”. La sa disanima dell’androide, che “come ogni altra macchina, deve funzionare al momento giusto”, è acuta e decisiva. Philip Dick si rende conto che “queste costruzioni non imitano gli umani: per molti aspetti fondamentali, esse in realtà sono già umane”. Questo sdoppiamento è un elemento politico stringente perché “l’androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto, prevedibilità”. Quello che mancava a George Orwell in termini di dettagli specifici, si trova in Philip Dick, nelle forme di un disappunto per sia aver sbagliato profezie (“Ecco l’orribile società tecnologica, che era il nostro sogno, la nostra visione del futuro. Non siamo riusciti a immaginare nulla di abbastanza potente, astuto o altro, che potesse impedire l’avvento di quella terribile società da incubo”) sia per averle enunciate fin troppo bene (“L’ininterrotta preparazione della tirannia di stato, che nei circoli fantascientifici, con la nostra insistenza sull’avvento della società antiutopica, abbiamo previsto per il mondo di domani, quest’aumento dell’invadenza dello stato nella vita privata dell’individuo, questo voler sapere tutto sul conto della persona e, una volta saputo, o convinti di essere venuti a sapere, qualcosa che può costituire una minaccia per lo stato, questo potere di annientare l’individuo; insomma, tutto questo processo, come facilmente si comprende, si serve della tecnologia come strumento”). Se vi pare che questo mondo sia brutto contiene molto altro: un arguto ritratto dal vivo del romanziere e dei suoi compiti, nel saggio omonimo del 1977 e da lì una gimkana attraverso le possibili soluzioni della realtà “quella cosa che, anche se si smette di credervi, non scompare”. Premesso che “il mondo del futuro, per me, non è un luogo, bensì un evento. Una costruzione, ma non di un autore che usi le parole per scrivere un romanzo o un racconto davanti a cui si possa semplicemente sedersi e mettersi a leggere; una costruzione in cui non vi siano autore e lettori, bensì un gran numero di personaggi in cerca di una trama”, Come costruire un universo che non cada a pezzi dopo due giorni, un brano scritto nel 1978 e aggiornato nel 1985 torna sull’invadenza della tecnologia, con maggior attenzione alle sue applicazione negli strumenti di comunicazione. Se, fra tutti, “la visione televisiva è una specie di apprendimento in stato di sonno”, il rimedio secondo Philip Dick è non smettere di domandarsi cosa è reale “perché siamo incessantemente bombardati da pseudorealtà prodotte da gente estremamente sofisticata che adopera dispositivi elettronici altrettanto sofisticati. Non diffido dei loro moventi. Diffido del loro potere. Ne hanno moltissimo. Diffido dello stupefacente potere di creare universi, universi della mente”. Qui entra in scena l’ultima parte, Cosmogonia e cosmologia che nelle sue elaborazioni filosofiche non fa che confermare che “l’assenza di qualcosa di vivo” resta “l’aspetto orrorifico, la visione apocalittica di un futuro da incubo”. Non siamo molto lontani. 

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