mercoledì 8 novembre 2017

Lewis Mumford

Per trent’anni Lewis Mumford tenne sul New Yorker la rubrica The Sky Line, nella quale affrontava, di volta in volta, i principali cambiamenti architettonici (e non solo) di New York. Da una prospettiva singolare e pungente, già annunciata nel primo dei due racconti autobiografici che costituiscono l’apertura di Passeggiando per New York, a tutti gli effetti una raccolta antologica delle sue Sky Lines: “Karl Marx definiva la mia classe d’origine piccola borghesia. Col che egli non la considerava tanto una classe, come del resto neanch’io, ma quella era l’angolatura da cui vedevo New York. E ciò mi consentiva una visuale ben più ampia di quanto voi o Marx potreste pensare”. Alla sua penna caustica non sfugge nulla, che si tratti del Rockfeller Center, del Radio City Music Hall, dei docks o degli slums, con accenti polemici che non si piegano davanti a niente e nessuno, sindaco e autorità varie comprese. La visuale di Lewis Mumford non si accontenta di esprimere un parere estetico, che comunque avrebbe già un suo valore. Quando guarda uno dei simboli delle architetture di New York, lo sviluppo verticale dei grattacieli, cresce in parallelo un senso critico che non concede alcun spazio all’ambiguità: “In altre parole, l’alto grattacielo è il trastullo dell’uomo d’affari, il suo giocattolo, il suo gingillo; nella sua voglia di grandezza, lo chiama alternativamente un tempio o una cattedrale e osserva il romantico disordine di altezze della città moderna con la stessa beatitudine che l’industriale vittoriano provava per le ciminiere delle fabbriche che eruttavano fuliggine e gas fetidi. Il grattacielo lo fa sentire fiorente anche quando è la causa delle sue perdite di denaro. Nell’interesse della congestione, l’uomo d’affari è disposto a rendere le strade intransitabili, a perdere migliaia di dollari al giorno in spostamenti a vuoto e in ritardi, a sprecare milioni nella costruzione di più metropolitane per promuovere più congestione, e in generale a far fronte a ogni tipo di seccatura, fintanto che può nutrire il suo iperbolico sogno romantico”. Fin troppo eloquente: non si tratta quindi soltanto di Scritti sull’architettura della città, come dice il sottotitolo di Passeggiando per New York, ma di un modo di affrontare la realtà, partendo dal basso, camminando nelle strade e coltivando l’arte, il gusto e lo spirito d’osservazione per cogliere i cambiamenti fondamentali di una città e della sua vita. L’ottica riflette la metropoli e ne coglie gli aspetti più importanti: “Non mi è mai piaciuta l’espressione stile internazionale riferita alla forma moderna, poiché mi è sempre parsa implicare una uniformità e una esteriorità, prive di colore o di variazioni regionali, tuttavia; le fonti della migliore forma moderna sono davvero internazionali. Il punto è che più numerose sono le fonti utilizzate, maggiori sono le probabilità di trovare proprio quelle combinazioni che si intonano squisitamente alle circostanze locali. L’ultimo modo per realizzare un vero stile regionale è quello di praticare l’isolamento culturale”. Non manca l’entusiasmo per l’architettura moderna, per il design innovativo, ma il più delle volte Lewis Mumford è spietato, e altrettanto ironico, nel ricordare, dietro ogni spigolo di New York, che “il caos non ha bisogno di essere progettato”.

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