mercoledì 15 novembre 2017

James Ellroy

Los Angeles è Hollywood e le fotografie sulla scena del crimine hanno l’atmosfera del cinema noir. Lo scambio è inevitabile, l’osmosi continua, e figurarsi se questo James Ellroy non lo sa, anzi lo sa e lo spiega benissimo: “Perché le foto dei morti nelle scene del crimine sono così belle? Perché sono sempre di qualcun altro, ed è improbabile che noi finiamo stecchiti davanti a un albergo a ore della East 5th Street. Perché l’accumulo di particolari da film suggerisce un mondo che è insieme simile e distante dal nostro. Perché il subconscio è intorpidito da immagini sepolte e frammenti sinaptici che riemergono dalla memoria razziale e la nostra vita va a finire nel gorgo di quello spiritus mundi in perpetua evoluzione che chiamiamo storia, e toccare i confini della vita orrifica di allora vuol dire affermare il nostro transito terreno ora, nonché riaffermare entrambi come luminosamente unici e piattamente banali, perché alla fine siamo tutti uniti come un solo essere con un’anima sola, e alla fine l’arte è l’elemento che permette la fusione di vivi e morti, uniti e riconciliati”. Le immagini inchiodano il momento senza possibilità di errori o divagazioni. Il rigoroso bianco e nero delle fotografie coglie qualcosa in più delle due dimensioni, nell’ottica di James Ellroy che sottolinea a ripetizione “il gesto ambiguo, l’effimera corrente sotterranea, la consapevolezza pervasiva del fatto che il gioco è truccato”. Mostrano una Los Angeles di “allora” che è il seme per quella di “adesso”. E’ un refrain che torna spesso nei commenti e nelle didascalie di James Ellroy, come se le fotografie fossero la connessione tra due città nel tempo, quella di allora con una sua cruda, spietata e distorta eleganza e quella di adesso, che non esiste. Una Los Angeles che è sparita e che rimane nella memoria dato che, come spiega Glynn Martin, “il crimine possiede, per sua natura, una sorta di continuità immune al passare del tempo”. La Los Angeles di allora ha ancora un volto umano, persino nella disperazione. Anche se il vero motto del dipartimento guidato da William Parker era “reprimere e sopprimere”, che è un po’ diverso da “proteggere e servire”, la polizia, piaccia o meno, non girava armata come un esercito in assetto da combattimento. Ci sono smorfie e sguardi molto perplessi davanti alle posizioni scomposte dei cadaveri di un’omicidio o di un suicidio. Le foto hanno una dignità geometrica. Sembrerà strano, ma c’è quasi compassione, più che “disprezzo” e tutto è più modesto e accurato. Le forme appaiono eleganti: le automobili sono tutte curve e imbottiture, le strade sono più larghe, libere e pulite, luoghi che sono stati set cinematografici prima di diventare scene del crimine, e viceversa. La commistione tra fiction e realtà è elevata a regola quotidiana. In più c’è un elemento di nostalgia, nemmeno troppo velato, nei commenti di James Ellroy: questi sono i suoi luoghi oscuri in una luce diversa, e i continui richiami a Perfidia, American Tabloid e Dalia Nera sono riferimenti naturali e spontanei per gli adepti di Los Angeles. Non si può veramente andarsene, è la città in cui vai “in vacanza, e torni a casa in libertà vigilata”. Un potere ipnotico che vale per la prosa di James Ellroy che è inseparabile da Los Angeles e volutamente volgare. Se per l’occasione cita con rispetto Saul Bellow e Don DeLillo, le sue fonti di ispirazione sono sempre quelle sul campo: i “ragazzi del coro” di Joseph Wambaugh, Lenny Bruce, Charlie Parker e John Coltrane in un buco fumoso e Dexter Gordon che suona il sassofono in galera. Il film non finisce mai.

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