Los
Angeles è Hollywood e le fotografie sulla scena del crimine hanno
l’atmosfera del cinema noir. Lo scambio è inevitabile, l’osmosi
continua, e figurarsi se questo James Ellroy non lo sa, anzi lo sa e
lo spiega benissimo: “Perché le foto dei morti nelle scene del
crimine sono così belle? Perché sono sempre di qualcun altro, ed è
improbabile che noi finiamo stecchiti davanti a un albergo a
ore della East 5th Street. Perché l’accumulo di particolari da
film suggerisce un mondo che è insieme simile e distante dal nostro.
Perché il subconscio è intorpidito da immagini sepolte e frammenti
sinaptici che riemergono dalla memoria razziale e la nostra vita va a
finire nel gorgo di quello spiritus mundi in perpetua
evoluzione che chiamiamo storia, e toccare i confini della vita
orrifica di allora vuol dire affermare il nostro transito
terreno ora, nonché riaffermare entrambi come luminosamente
unici e piattamente banali, perché alla fine siamo tutti uniti come
un solo essere con un’anima sola, e alla fine l’arte è
l’elemento che permette la fusione di vivi e morti, uniti e
riconciliati”. Le immagini inchiodano il momento senza possibilità
di errori o divagazioni. Il rigoroso bianco e nero delle fotografie
coglie qualcosa in più delle due dimensioni, nell’ottica di James
Ellroy che sottolinea a ripetizione “il gesto ambiguo, l’effimera
corrente sotterranea, la consapevolezza pervasiva del fatto che il
gioco è truccato”. Mostrano una Los Angeles di “allora” che è
il seme per quella di “adesso”. E’ un refrain che torna spesso
nei commenti e nelle didascalie di James Ellroy, come se le
fotografie fossero la connessione tra due città nel tempo, quella di
allora con una sua cruda, spietata e distorta eleganza e
quella di adesso, che non esiste. Una Los Angeles che è
sparita e che rimane nella memoria dato che, come spiega Glynn
Martin, “il crimine possiede, per sua natura, una sorta di
continuità immune al passare del tempo”. La Los Angeles di allora
ha ancora un volto umano, persino nella disperazione. Anche se il
vero motto del dipartimento guidato da William Parker era “reprimere
e sopprimere”, che è un po’ diverso da “proteggere e servire”,
la polizia, piaccia o meno, non girava armata come un esercito in
assetto da combattimento. Ci sono smorfie e sguardi molto perplessi
davanti alle posizioni scomposte dei cadaveri di un’omicidio o di
un suicidio. Le foto hanno una dignità geometrica. Sembrerà strano,
ma c’è quasi compassione, più che “disprezzo” e tutto è più
modesto e accurato. Le forme appaiono eleganti: le automobili sono
tutte curve e imbottiture, le strade sono più larghe, libere e
pulite, luoghi che sono stati set cinematografici prima di diventare
scene del crimine, e viceversa. La commistione tra fiction e realtà
è elevata a regola quotidiana. In più c’è un elemento di
nostalgia, nemmeno troppo velato, nei commenti di James Ellroy:
questi sono i suoi luoghi oscuri in una luce diversa, e i continui
richiami a Perfidia, American Tabloid e Dalia Nera
sono riferimenti naturali e spontanei per gli adepti di Los Angeles.
Non si può veramente andarsene, è la città in cui vai “in
vacanza, e torni a casa in libertà vigilata”. Un potere ipnotico
che vale per la prosa di James Ellroy che è inseparabile da Los
Angeles e volutamente volgare. Se per l’occasione cita con rispetto
Saul Bellow e Don DeLillo, le sue fonti di ispirazione sono sempre
quelle sul campo: i “ragazzi del coro” di Joseph Wambaugh, Lenny
Bruce, Charlie Parker e John Coltrane in un buco fumoso e Dexter
Gordon che suona il sassofono in galera. Il film non finisce mai.
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