giovedì 5 ottobre 2017

Lewis Mumford

A ben guardare, la forma delle utopie è ricorrente nel richiamare l’attenzione alle necessità collettive. Istruzione, lavoro, bisogni primari di sussistenza e di convivenza civile, sono le urgenze che ne delimitano la prospettiva ed è proprio quella l’identificazione preliminare di Lewis Mumford: “Quasi tutte le utopie criticano implicitamente la civiltà in cui nascono, e sono allo stesso tempo un tentativo di scoprire le possibilità che le istituzioni esistenti o ignorano o seppelliscono sotto la crosta delle vecchie usanze e abitudini”. Nel ricostruire la Storia dell’utopia, Lewis Mumford premette di tenere conto “in ogni schema, delle ribellioni, delle opposizioni, dei conflitti, del male e della corruzione, poiché sono presenti nella storia di tutte le società”. E’ nell’etimologia stessa della parola, che va cercata tra i vocaboli greci “eutopia “(il buon posto) e “outopia” (nessun posto), dove l’utopia si colloca in una terra di nessuno di trasformazioni e di cambiamenti. Nell’introdurre uno studio altrettanto approfondito, Il desiderio chiamato utopia, Fredric Jameson scriveva: “La forma utopica è di per sé una significativa riflessione sulla differenza, sull’alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità sociale. Nonè possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale della nostra società che non sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche come tante scintille dalla coda di una cometa”. La percezione resta infinita e indefinita e il paragone astronomico non è una coincidenza, visto che ricorre anche con Lewis Mumford quando dice: “Noi dormiamo sotto la luce di stelle che da molto tempo hanno smesso di esistere, e prendiamo come modelli di comportamento delle idee che non sono più reali nel momento stesso in cui smettiamo di credervi”. All’elenco dei bagliori collezionati dalla Storia dell’utopia non sfuggono le tesi di Tommaso Moro, La città di Dio di Sant’Agostino e La città del sole di Tommaso Campanella, Campi, fabbriche e officine di Pëtr Kropotkin, e la Nuova Atlantide di Francesco Bacone, e tutte le ipotesi, dal villaggio alla nazione, dall’economira rurale nelle vallate alla rivoluzione industriale nelle città, da “erewhon” a “nowhere”, da Freeland a Coketown, “il mondo delle idee”, diventa “un organico insieme di parti suscettibile di migliore organizzazione, di cui è importante mantenere l’equilibrio, come in ogni organismo vivente, al fine di favorire la crescita e il progresso”. L’utopia non è un paradiso minore, neanche quando riguarda la “fuga”o la “ricostruzione” e l’inventario (e la cernita) di Lewis Mumford non è un elenco di luoghi impossibili e fantastici, ma la constatazione che “quando vi è una frattura tra il mondo reale e il mondo superiore dell’utopia, noi ci rendiamo conto della parte che la tendenza all’utopia ha giocato nella nostra vita, e vediamo la nostra utopia come una realtà diversa”. La panoramica compresa nella Storia dell’utopia si conclude con un proposito molto intonato perché se “appare chiaro che in un mondo così pieno di frustrazioni come quello reale, siamo costretti a svolgere una gran parte della nostra vita intellettuale nella sfera dell’utopia”, il cui destino ultimo è comunque rendere più “tollerabile” quel mondo, è altrettanto evidente che “il compito più importante che ci aspetta in questo momento è di costruire castelli in aria”. Sposta il baricentro dall’utopia come necessità, come “mito sociale”, a momento ineluttabile del pensiero, a riprova e a conferma che l’unica utopia possibile è l’utopia delle idee.

Nessun commento:

Posta un commento