lunedì 2 ottobre 2017

Sarah Manguso

Andanza è un formidabile peccato di omissione. E’ la fine di un diario, ma il diario non c’è, almeno non qui dentro. E’ il diario di un’idea del diario, come se fosse il futuro del diario stesso. E’ uno specchio che rimanda un’immagine al contrario, come la pipa nel famoso dipinto di René Magritte, (questo non è un diario) o un rebus come la rosa nel poema di Gertrude Stein (un diario, è un diario, è un diario). Solo in apparenza, però, la forma è autosufficiente perché nel momento stesso in cui Sarah Manguso sostiene di scrivere “per poter dire che stavo prestando davvero attenzione”, concede al lato pubblico una precisione assurda. Un diario, che ci sia, o no, vuol dire un giorno dopo l’altro, un calendario e le sue stagioni, ma “il tempo non è fatto di istanti, li contiene. E nel tempo c’è molto altro”. Un minuscolo aneddoto, quasi un segnale ancora intrappolato dentro la vita reale, funziona da esca: “Intrappolata a una festa a chiacchierare con due ragazzi, avrei tanto voluto aspettare in quello stesso corridoio fumoso per quindici anni, per capire cosa avrebbero detto a quarant’anni”. La distanza non è legata soltanto alla dimensione temporale, l’introspezione dell’Andanza prevede scansioni più complesse e profonde, come dice Sarah Manguso: “Vivere sognando il futuro è un difetto del carattere. Ma anche vivere nel passato, immersi nella nostalgia, è un difetto del carattere. Vivere nel presente è considerato ammirevole dal punto di vista spirituale, ma ignorare le lezioni della storia o non riuscire a pianificare il domani sono visti come difetti del carattere. Avevo bisogno di annotare il momento presente prima di poter entrare in quello successivo, ma volevo anche capire come abitare il tempo senza inciampare in un difetto del carattere. Ricorda le lezioni del passato. Immagina le possibilità del futuro. E resta nel presente, l’unica porzione di tempo che non richiede l’uso della memoria”. Sarah Manguso deve aver letto Sant’Agostino quando diceva che “il presente del passato è la memoria”, ed è dove “il ricordo germoglia. Lasciato solo nel tempo, cresce”, mentre “il futuro succede. Continua a succedere”. L’argomento, che ha tutti i suoi risvolti fisici, filosofici e religiosi rimane sospeso, e Sarah Manguso lo affronta con mille scrupoli: crea uno spazio in cui il tempo resta fugace, immobile durante il racconto del parto, altrove solo un passaggio, un riflesso che non viene mostrato, perché, come diceva Shakespeare nell’Enrico IV, “la parte migliore del coraggio è la discrezione”. Il suo piccolo libro è tutto nel “privilegio di mettere la spunta alle cose” perché in effetti “il tempo ci punisce togliendoci tutto, ma ci salva prendendosi tutto”. Il paradosso lascia soltanto un’opzione tanto che “l’obiettivo è la creazione di un sistema di espressione puro, senza la distrazione di uno stile. Una forma che nessuno noti, la creazione di qualcosa che ricordi la sensazione pura e non il veicolo di una sensazione. La lingua come pura esperienza, pura memoria”. Il problema è che, come scriveva Alice Munro, “quando si scrive si fa una cosa di cui gli altri non sanno niente, e non se ne può parlare, si torna di continuo al proprio mondo segreto per poi fare cose diverse nella vita normale”. E’ stato proprio così per Sarah Manguso (“Ho nascosto tutte le cose che ritenevo importanti lì dove credevo che nessuno avrebbe mai cercato”) con l’idea di raccontare il diario e nello insieme di occultarlo con ogni precauzione, ha dimostrato con Andanza che scrivere prevede un tempo perduto, l’oblio, il fallimento ed è un “andare” (parecchio) impervio, quindi indispensabile.

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