I
personaggi, l’ambiente, lo stesso tema sembrerebbero fare di La
fine della strada una coda ingombrante dell’umanità già vista
con L’opera galleggiante: insegnanti logorroici, linde e un
po’ asettiche periferie urbane, nevrosi in carriera, legami in
rapida trasformazione. In realtà, se L’opera galleggiante
tratteggiava la rete mutevole dei rapporti umani, La fine
della strada punta una linea d’ingrandimento sui nodi, sulle
intersezioni, sugli agganci. Il protagonista, Jacob Horner (“Ero un
uomo di notevole onestà entro limiti di un dato stato d'animo, ma
avevo poca resistenza”) insegnante di inglese, si trasferisce in
una cittadina della provincia americana dove diventa ospite fisso dei
coniugi Rennie e Joe Morgan con cui sviluppa un’ambigua e
controversa relazione. Lui resta al vertice di un triangolo, una
figura geometrica particolarmente cara a John Barth, che vede i due
coniugi Joe e Rennie Morgan alle altre due estremità. Ognuno di
loro, con una maschera diversa, con i repentini cambiamenti di umore,
le improvvisazioni sull’anima e le mille piccole deviazioni della
vita quotidiana e del suo linguaggio vengono indirizzati da John
Barth in un abbraccio contrastato, carico di presagi perché la loro
comunicazione viaggia da un estremo all'altro: dai silenzi
imbarazzati alle risate isteriche, dalle lunghe speculazioni
filosofiche a battute ingolfate di sarcasmo. Una voluminosa partitura
di parole che John Barth asseconda con uno spirito tutto suo: “Ma
in fondo al cuore sono ancora un arrangiatore: il mio massimo
piacere, nel campo della scrittura, è prendere una melodia
preesistente e improvvisando come un jazzista all’interno dei
limiti di quella melodia, riorchestrarla a seconda della mie
esigenze”. E’ grazie a questo vortice che La fine della strada
trascina il lettore nel vortice di Jacob Horner e dei suoi
ospiti, un dramma che si percepisce riga dopo riga, una mutazione che
non concede nulla ai protagonisti, che vengono travolti dalla loro
stessa storia. L’abilità di John Barth sta nel trasformarci in una
sorta di voyeur, suggerendoci poche indicazioni, ma mettendoci sempre
in condizioni di vedere l’intera scena, di percepire la tensione di
un dialogo, di condividere le vite alla deriva. A quel punto la
formazione teatrale e cinematografica di John Barth diventa
predominante nell’interpretare La fine della strada: “Per
ora basti dire che per gran parte del nostro tempo, se non sempre,
siamo tutti dispensatori di ruoli, ed è saggio chi si rende conto
che il suo dispensare ruoli è, nel migliore dei casi, un’arbitraria
deformazione della personalità degli attori; ma è anche più saggio
chi vede, oltre a ciò, che questo arbitrio è probabilmente
inevitabile, e sembra ad ogni modo necessario se uno vuol raggiungere
il fine che desidera”. Tutto lì, perché poi La fine della
strada è la dimostrazione pratica di quello che John Barth disse
in un’intervista di qualche anno fa: “Nella storia della
letteratura, i grandi romanzi sono sempre riusciti a mettere in scena
dei grandi problemi, senza richiedere una guida alla lettura o un
testo che spiegasse al lettore, dal di fuori, a cosa stava andando
incontro”. Dovrebbe essere sempre così.
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