martedì 31 ottobre 2017

Fredric Jameson

Fredric Jameson ci tiene a precisare, fin da subito, che per comprendere Il desiderio chiamato utopia bisogna distinguere “l’esperienza esistenziale” dal “tempo storico”, l’immagine soggettiva e la destinazione collettiva, le identità e le differenze, i sogni partoriti dalle ideologie e le variabili architettoniche. Un fatto, a livello preliminare, è assodato e decisivo: “La forma utopica è di per sé una significativa riflessione sulla differenza, sull’alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità sociale. Non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche come tante scintille dalla coda di una cometa”. Questo è il senso compiuto su cui prospera Il desiderio chiamato utopia che poi, nella sua estrapolazione e nel confronto con la realtà, si svela sempre un percorso tortuoso e problematico, prima di tutto, perché “il politico è sempre un errore categoriale che nasce nei momenti di crisi o di più profonda contraddizione e prende la forma in cui appare in base alla natura della crisi. Sarebbe allettante ma superficiale limitarsi a osservare che lo stesso spazio del politico (e del potere) varia in maniera talmente radicale a seconda del modo di produzione del quale è funzione da non poter essere generalizzato e da resistere a qualsiasi definizione concettuale”. Anche l’analisi di Fredric Jameson in quei frangenti diventa (parecchio) contorta: si avvita in speculazioni filosofiche, sociologiche e psicologiche fin troppo erudite, specifiche e comunque ostiche, almeno a una prima lettura. Del resto, una certa impalpabilità dell’utopia è ammessa dallo stesso Jameson: “E’ paradossale che una forma che dipende in maniera tanto assoluta dalle circostanze storiche (fiorisce soltanto in condizioni specifiche e in rari frangenti) debba sembrare essenzialmente astorica, che una forma che scatena inevitabilmente passioni politiche sembri evitare o abrogare del tutto la politica, e che un testo tanto dipendente dal capriccio e dall’opinione dei singoli sognatori sociali si trovi disarmato di fronte alle istanze del soggetto individuale e della sua azione fondatrice”. Funziona molto meglio dove la dimensione dell’utopia è messa in discussione nelle invenzioni letterarie, quelle fantascientifiche su tutte, non solo per la loro capacità di mostrare mondi irraggiungibili e futuri remoti, ma anche perché evidenziano “un elemento caratterizzato da una parola decisamente sospetta, entusiasmo. E’ la vocazione intellettuale nel suo stadio più febbrile e spassionato, al culmine della propria eccitazione potenziale, impegnata in una missione che più di qualsiasi altra sembra concentrare ciò che definisce l’intellettuale, cioè il rapporto con la scrittura”. Fredric Jameson attinge a una fornitissima bibliografia, con lo spirito di Philip Dick a vegliare sui romanzi di Michael Swanwick, Greg Bear, Samuel Delany, Isaac Asimov, Arkady e Boris Strugatzki, Olaf Stapledon e Ursula Le Guin, la più citata, a cui tocca il compito di semplificare lo sguardo verso le architravi delle utopie e delle distopie: “Le cose non hanno uno scopo, come se l’universo fosse una macchina, in cui ogni parte svolge una funzione utile. Qual è la funzione di una galassia? La cosa non ha importanza, è che siamo una parte. Come un filo di lana in un tappeto o un filo d’erba in un prato. Esso esiste e noi esistiamo. La cosa che stiamo facendo è come il vento che soffia sull’erba”. Così, sì, il desiderio, e pure l'utopia, sono chiarissimi.

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