lunedì 28 marzo 2016

Jim Harrison

Dalva è uno dei personaggi di Jim Harrison capaci di racchiudere tutto un immaginario, una realtà, un paesaggio. Bella, volitiva, sfuggente, figlia di un melting pot sanguinoso, Dalva attraversa il Nebraska e l’America intera in cerca di un figlio sconosciuto e di se stessa perché “forse è sempre la stessa storia: cerchiamo di tirare avanti a vivere, come se prima fossimo vissuti nell’Eden. L’Eden è l’infanzia che si trova ancora nel paradiso terrestre, o perlomeno quella parte di infanzia che cerchiamo di farci restare. Forse per noi l’infanzia è un mito di sopravvivenza”. Nel seguire le peripezie esistenziali di Dalva, il suo contorto albero genealogico lungo un secolo di storia americana, i ricordi, i cavalli, i fantasmi e il coraggio, Jim Harrison costruisce un romanzo a incastri, dove il genocidio dei nativi americani si interseca con “una misura colma di inevitabile solitudine” che condividiamo tutti, dove le passioni che servono a mitigare le sofferenze sortiscono effetti imprevedibili, e comunque, volendo sfuggire alle menzogne dei governi e delle accademie, è inevitabile il ricorso a “una curiosità molto vivace ti dà la possibilità di contemplare delle alternative”. Dalva si legge a più livelli e l’innato spirito dello storyteller di Jim Harrison è soltanto l’inizio della galoppata: “Ho ricominciato a scrivere per sbarazzarmi di pensieri e informazioni e lasciar spazio a qualcosa di nuovo. Butti giù una mappa topografica, e poi passi ad altro”. La sua attitudine, qui si trasformerà in una sorta di modello, a partire da Julip per arrivare a Ritorno alla terra e a La strada verso casa che sembrano affondare le proprie radici nella parte conclusiva di Dalva, Ritorno a casa. Sempre tenendo uniti i due estremi tra cui rimbalza la narrativa di Jim Harrison. Da una parte la scrupolosa attenzione dello studioso, della “biblioteca vivente”, convinto che “il nostro mestiere non è di leccare le ferite della storia ma descriverle. Se da un lato è una verità fin troppo ovvia che l’uomo non ha imparato molto di più che l’atto sessuale, e che il fuoco brucia quando ci metti la mano sopra, dall’altro è compito dello studioso immergersi nell’analisi del problema, piuttosto che nel problema in sé. Ci si deve difendere senza sosta dal sentimento, dalle opinioni pure e semplici, dalla speculazione non fondata sui fatti”. Dall’altra c’è il poeta appassionato e romantico, ma le due moltitudini non sono in contraddizione perché “l’uomo parla di sé con eloquenza come di uno storico, il che significa che studia i reperti delle abitudini di massa dell’umanità, guerra, carestie, politica, quel motore che è l’avidità. Quello che siamo, quel che abbiamo fatto, quel che abbiamo costruito, pesa su di noi come la forza di gravità: con la stessa forza e di solito senza che ce ne rendiamo conto”. Dalva contiene molto di Jim Harrison, che non si lascia ingannare dal destino delle storie che non vengono raccontate, e sembra incontrare se stesso quando spiega di non essere capace di vivere o nutrirsi “di ricordi, trattandoli come fa la maggior parte della gente, il passato e il futuro come uno spazio incapsulato o un nodulo in cui siamo entrati e poi usciti, invece che un continuum della vita che abbiamo già vissuto e continueremo a vivere”. Indimenticabile.

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