Quello di Tom Joad
è un fantasma che si ripresenta più e attuale e spettrale che mai. Il viaggio
della sua famiglia su una strada che è viva, senza fine e brulicante di
migranti, un nuovo popolo in cerca di una terra promessa, un’inedita specie
americana, evoca il giorno in cui “gli eserciti dell’amarezza andranno tutti
nella stessa direzione. E marceranno tutti insieme, e spargeranno un terrore di
morte”. Il tenore apocalittico è il senso primo e ultimo di Furore perché “la gente è il posto dove vive” e
quando la meccanizzazione dell’agricoltura attraverso le colture intensive e
quelle pratiche economiche che rendono mostri i trattori e le banche i Joad
rimangono devastati vedendo che “la terra partoriva sotto il ferro, e sotto il
ferro a poco a poco moriva, perché non era stata amata né odiata, non aveva
attratto preghiere né maledizioni”. L’illusione di essersi lasciati alle spalle
una ferita vasta quanto una nazione è un miraggio e dura lo spazio di un
niente: la polvere è ovunque e ai Joad non resta che chiedersi “come facciamo a
vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro
passato?”, e sono queste le domande che hanno trasformato Furore in un classico. Duro, estremo, non
riconciliato, unico tanto da sollecitare l’inequivocabile sentenza di Tom
Wolfe: “La grande letteratura americana è finita con John Steinbeck. Dopo di
lui, il diluvio. Solo autori molli, contagiati dalla malattia perniciosa del
romanzo francese: nessuno che abbia più raccontato una storia sporcandosi le
mani con la realtà”. Su questo si può anche essere in disaccordo, ma, come puro
e semplice narratore, Steinbeck è incredibile: per dire, dopo un capitolo
passato a decantare l’amore per le automobili (usate, peraltro) lascia Tom Joad
in mezzo a un sentiero desertico. E’ quella la forza di un’amarezza che Furore non stempera mai: l’odissea della famiglia
Joad procede su strade che dovrebbero portare in California e invece si
inerpicano nel mezzo del nulla. Furore aveva e ha ancora un’energia infinita nelle descrizioni,
nel racconto della Route 66, un’ossessione micidiale nell’inquadrare lo spirito
di un tempo sfuggente, di tutti i tempi, di sempre e John Steinbeck è stato
soltanto straordinario a evidenziarne, quasi con precisione fotografica, i
dettagli perché siamo “la rabbia di un momento, le mille immagini”, e poco
altro. Una di queste, appare subito nelle prime pagine e rimane scolpita dalle
parole: “Venne l’alba, ma senza giorno”. C’è l’intero Furore in una frase, anche se poi John Steinbeck
sguscia fuori dalla pelle dello scrittore e alza la voce con un tono che è
soltanto profetico: “Se riusciste a capire questo, voi che possedete le cose
che il popolo deve avere, potreste salvarvi. Se riusciste a separare le cause
dagli effetti, se riusciste a capire che Paine, Marx, Jefferson e Lenin erano
effetti, non cause, potreste sopravvivere. Ma questo non potete capirlo. Perché
il fatto di possedere vi congela per sempre in io, e vi separa per sempre dal noi”. Imprescindibile.
Ciao Marco,ho appena finito di leggere Furore, una mia prima lettura risale ad una vita fa e non lo ricordavo affatto anche se credo che le emozioni che mi ha suscitato ora sia ben diverse da quelle di allora. L'ho (ri)trovato un romanzo grandioso per stile e contenuti, la figura finale della pietà umana, iconograficamente rimandabile a quella scultorea conosciutissima, mi ha commosso, una pietà per i vivi dimenticata allora come oggi, con un impatto narrativo potente. Ho letto però la vecchia traduzione, volevo chiederti se effettivamente quella nuova merita più della prima e se varrebbe la pena di rileggerlo per notarne le differenze ed apprezzarlo ancora di più. Grazie per una eventuale risposta :-) Un caro saluto
RispondiEliminaMaria