martedì 28 febbraio 2012

Mark Strand

L’uomo che cammina un passo avanti al buio è una corposa selezione di poesie che va dal 1964 al 2006 e rappresenta in modo vivido ed efficace la visione poetica di Mark Strand. Una proprietà di linguaggio che si svela frase dopo frase, che incanta senza appello per il fulgore delle immagini (“Sparirono allora le cetre imperlate di luci inarcate sopra i fiumi di New York. Un altro si riempì il bicchiere e fu la fine per le folle di sera sotto l’accendersi di lampioni giallo zolfo”) e la ricchezza dei temi. Nulla, per citare un altro grande poeta, sembra essergli estraneo, più di tutto e di tutti l’instabile materia dei legami umani in tutte le possibili declinazioni. Tra le tante merita una segnalazione in più La vita tranquilla, rappresentativa in particolare di quella voce che sconfina sul piano narrativa: “Sono passati anni, e anche se ho scordato dove andammo e chi fossimo, ricordo ancora l’istante in cui lo sguardo in cui alzai lo sguardo e vidi la donna guardare fisso oltre di me un luogo che potevo solo immaginare, e ogni volta provo una pena acuta, come in quel momento uscissi dalle profondità dello specchio ed entrassi nel salone bianco, ansimante e ardente, soltanto per scoprire troppo tardi che lei lì non c’è”. La natura delle poesie di Mark Strand parte e arriva sempre da lì e pur procedendo in modo florido e densissimo, è diretta, immediata, nitida e senza una sbavatura in ogni suo verso. “Ogni pagina che si gira è una candela che si muove nella mente. Ogni attimo è una causa senza speranza” scrive ed è come se tracciasse linee nell’aria perché “fissare il nulla è imparare a memoria quello in cui tutti verremo spazzati, e spogliarsi al vento è sentire l’inafferrabile da qualche parte farsi vicino”. E’ una poesia che condivide con il lettore molte domande dal peso specifico importante (una su tutte: “Cosa dovremmo sentire se non la voce che dovrebbe essere nostra darsi forma, la voce segreta dell’essere che ci dice che il luogo in cui scompariamo è il luogo in cui siamo?”), aspirazioni tutt’altro che scontate (“Vorrei uscire e trovarmi sull’altra sponda, ed essere parte di tutto ciò che mi circonda. Vorrei trovarmi in quella solitudine di cose mute, nella squinternata compagnia del vento, trovarmi senza peso, senza nome”) e precisazioni lapidarie sui limiti endemici dell’uso dell’abuso di inarticolate forme d’espressione (“Noi ce ne saremo andati, parlando ad alta voce a noi stessi, ripetendo le parole che sono sempre state usate per descrivere il nostro destino”) che hanno nella scrittura la più plastica evidenza del loro fallimento. Sembra ammetterlo in modo implicito Mark Strand quando dice: “E’ sempre così. Ovunque io sia io sono ciò che manca”. Allo stesso modo le numerose dediche sono piccoli omaggi senza altro scopo se non far brillare voci che condividono la stessa cura per le parole e la stessa passione per le le immagini: tra gli Octavio Paz, Charles Simic, Elizabeth Bishop e Wallace Stevens che per Mark Strand è stato più di un modello.

1 commento:

  1. Marco, sono un "fissato" di Mark Strand.
    Ho creato un blog su di lui
    http://mark-strand.blogspot.com/
    con materiali di tutti i tipi, testuali, visivi, sonori. Mi piacerebbe che venissi a visitarlo.
    Ciao
    Ales

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