martedì 8 marzo 2011

Charles Portis

“La gente non riesce a credere che una mocciosa di quattordici anni è capace di andarsene di casa in pieno inverno per vendicare la morte del padre, ma a quei tempi non sembrava tanto stravagante, anche se devo ammettere che non capitava tutti i giorni”. C’è già l’intera storia del Grinta nel suo incipit: il resto è da leggere (o da vedere) tutto d’un fiato, senza grandi pretese e con grande piacere. Charles Portis scrive in un modo molto piano, con un senso pratico delle immagini, delle scene d’azione (non deve essere un caso se Il Grinta è diventato un film per ben due volte) e mettendo sul piatto una versione del paesaggio del West che non concede molto alla mitologia ed è piuttosto impregnato della violenza della “frontiera” a cui aggiunge una dose abbondante di ironia. La trama è elementare e a senso unico perché si articola nella terra di nessuno tra vendetta e giustizia, un terreno piuttosto fertile nella frontiera americana, con contorno di furbizie e ricatti e trattative e grilletti facili: il viaggio intrapreso dalla piccola Mattie per vendicare l’assassinio del padre è l’iniziazione alla natura selvaggia del West e insieme alla mutevolezza della forma dei legami, sottoposti a tradimenti, colpi di testa, menzogne ma anche improvvisi slanci di generosità e coraggio. Anche perché le figure dei fuorilegge tendono a confondersi, non sono mai definite, si muovono come ombre su una linea indefinita. Lo stesso Grinta ha un passato turbolento e oscuro (e non sempre dalla parte giusta) come oscura e turbolenta è la storia del West, che Charles Portis mostra di conoscere a fondo e in modo non banale. Molti dettagli, a partire dai filamenti storici della guerra di secessione, il caos primordiale da cui sono nati gli Stati Uniti d’America, fino ai particolari, precisi e minuziosi, del funzionamento delle armi e del loro inevitabile uso, per non dire del melting pot e della wilderness, sono cesellati in modo raffinatissimo nel viaggio del Grinta, di Mattie e del ranger LaBoeuf senza togliere nemmeno un battuta al ritmo serrato del racconto. La cui evoluzione è sì naturale e, in prospettiva, persino ovvia nel contesto dei luoghi comuni del West, ma non è priva di colpi di scena. È vero che sono i segugi a seguire le piste, a reggere i cavalli e a tenere le armi a portata di mano, ma poi è sempre il fato, un miraggio o un errore a introdurre un nuovo salto nel vuoto. Fino al gran finale che è movimentato, spettacolare, con tutti i protagonisti in condizioni epiche tra cariche a cavallo, tiri di precisione, crotali e duelli mortali. Molto di più non si può aggiungere perché il romanzo, nonostante ormai si sappia più o meno tutto, contiene non pochi elementi di sorpresa. Bisogna dire però che, finita la caccia all’uomo, la breve e malinconica coda riporta l’attenzione agli show del Wild West, con sceriffi e fuorilegge ridotti a fenomeni da baraccone, destino che hanno condiviso con altre leggende americane e ricorda la fine impietosa di un mito duro a morire.

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