mercoledì 20 aprile 2022

Bill Janovitz

Per inoltrarsi nel complesso paludoso e umidiccio di Exile On Main Street, Bill Janovitz sceglie lo scontro frontale, nel senso che parte dalla copertina e non dai dischi, da Robert Frank e non dai Rolling Stones, dalle immagini e non dalle canzoni. Trattandosi di materia incandescente l’azzardo può sembrare spericolato o, al massimo, un tentativo di schivare la tempesta di Exile e di prenderla per vie traverse. Invece è proprio così che Bill Janovitz va dritto sul bersaglio, nel cuore di quello che è veramente Exile: una monumentale rincorsa ai fantasmi di un passato che non vuole passare. La condizione di esiliati (di lusso) degli Stones, la cornice cupa e decadente in cui prese forma gran parte del disco, la stessa location sulla Costa Azzurra dove un’altra “generation”, quella di Scott & Zelda visse le sue follie, contribuiscono a creare quell’atmosfera sospesa tra realtà e leggenda propria degli scatti di Robert Frank. Come la copertina dell’originale vinile che si apriva allargando le sue ali, così Bill Janovitz usa quella visione per introdurre e poi chiudere il suo racconto di Exile. Tra l’inizio e la fine deve esserci l’azione e infatti Bill Janovitz nel mezzo dedica un paragrafo per ognuna delle canzoni che compongono Exile, senza lasciarsi sfuggire un dettaglio. La ricostruzione (ambientale, musicale, storica) è sintetica, puntigliosa, scrupolosa e molto efficace dal punto di vista narrativo, anche perché Bill Janovitz, cantante e chitarrista dei Buffalo Tom, sa che il segreto di Exile On Main Street è celebrare quel fascino inafferrabile che sta nel“chiamare un po’ di amici, stappare una bottiglia e cantare tutta la notte in cantina o al tavolo della cucina. Questa è l’essenza del suonare: la gioia, quella sorta di divertimento incontrollato che costituisce il più dell’infanzia e ben poco della vita adulta; purtroppo costituisce anche una piccola percentuale del suonare (e specialmente dell’andare in tour) con un gruppo per mestiere”. Pur sottolineando le molteplici connessioni umane e culturali che diedero linfa e respiro a Exile (a partire dalla presenza di Gram Parsons), Bill Janovitz non perde mai di vista la villa di Nellcote e l’essenza dei Rolling Stones. Nel gioco delle maschere, nella faida infinita tra i Glimmer Twins, nel dubbio tra tradizione e rivoluzione (come diceva sua maestà, Mick Jagger: “Il vero esperimento è ciò che vuoi dire. Si può usare una struttura tradizionale per esprimere un’idea stravagante o sperimentare, oppure usare una struttura sperimentale per esprimere un’idea banale, noiosa, superata”), nel caos dell’esilio e del rock’n’roll, Bill Janovitz mette in un angolo la mitologia e le leggende e sceglie di raccontare quello che, come tutti noi, ha sentito (e/o visto) senza aver vissuto. Anche con una certa lucidità, quando dice che “tuttavia, nonostante i problemi e gli ostacoli, gli Stones alla fine potevano vendere il mito del rock’n’roll perché lo vivevano. Lo vissero in tutti i suoi aspetti, positivi e negativi. Riuscirono addirittura a trasformare il lato terribile di quello stile di vita in un mito di glamour decadente”. E, proprio come le fotografie di Robert Frank, la sua storia di Exile è in bianco e nero (la vera estetica del rock’n’roll), bella e avvincente nel raccontare un capolavoro grezzo, sporco, denso, ingombrante, turbolento, perfetto. Per dirla con il perentorio incipit scelto da Bill Janovitz, Exile “è il più grande disco rock di tutti i tempi. Punto. Non mandatemi lettere, risparmiatevi le vostre telefonate. Vi posso quasi vedere, lì a sventolare in aria i vostri dischi dei Beatles, le vostre copie di Pet Sounds, vecchi LP polverosi dentro copertine scolorite, certamente tutti degni di grande rispetto. Dischi di musica pop geniali, forse anche capolavori. Ma non il disco di rock’n’roll più grande e profondo di tutti i tempi”. Siamo d'accordo, nessun dubbio in proposito.

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