mercoledì 30 settembre 2020
Melissa Anne Peterson
giovedì 17 settembre 2020
Larry Watson
Stando a un vecchio adagio riportato da Thomas McGuane in un dialogo di Solo un cielo blu, “il Montana è stato costruito dalla ferrovia”. Call e Augustus, i protagonisti di Lonesome Dove di Larry McMurtry, potrebbero dissentire visto che lo vedevano come la terra promessa e, per arrivarci con le loro mandrie, hanno dovuto combattere contro tutto e tutti. In Canada, uno dei personaggi di Richard Ford diceva: “Da queste parti ci sono solo vacche e grano”. Eppure c’è qualcosa in quell’ambiente, con la polvere che riempie le strade e il vento pieno di terra, che, nonostante gli spazi infiniti appare angusto, imprigionato nelle dinamiche delle città di provincia, ben rappresentate dalla personalità della famiglia Hayden. Anche David, il giovane protagonista di Montana 1948, nonché voce narrante, sente sulla pelle “un certo rispetto che non avevo avuto bisogno di guadagnarmi”, mentre cammina per Bentrock. È l’unico rappresentante dell’ultima generazione degli Hayden, nei tratti caratteriali ben disegnati da Larry Watson: il capostipite, Julian, nonno di David, e padre di Wesley e Frank, è un uomo della frontiera “ricco e potente”, che ha inaugurato la saga degli sceriffi Hayden nella contea di Mercer. Frank, il figlio maggiore, è tornato dalla guerra come un eroe, è sposato con Gloria ed è un medico. È più brillante e divertente, anche se dal suo matrimonio non sono ancora arrivati figli. Il contrasto tra i fratelli anticipa lo scontro vero e proprio. Wesley procede per inerzia e più che uno sceriffo, ruolo che ha ricevuto per investitura dal padre, pare un travet della prateria. Anche la pistola d’ordinanza (piccola e italiana!), che definisce uno status, è lontana anni luce dallo standard abituale del West e dell’America in generale dove, si sa, il culto delle armi è sancito dalla costituzione. In tutto Montana 1948 viene sparato un singolo colpo di fucile, ma il suo eco rimbomba nelle valli e a quel punto le dinamiche famigliari, viste con gli occhi di David, sono già collassate. Lui adora tutti, ma è innamorato della governante sioux, Marie Piccolo Soldato. Quando Marie si ammala di polmonite, è spontaneo chiamare Frank al suo capezzale, ma la reazione della donna sorprende tutti. Non vuole essere sfiorata dal dottore. Da lì emerge una sordida storia di abusi sessuali del fratello maggiore degli Hayden nei confronti delle donne indiane. David, attonito, si chiede: “Quanti altri segreti la nostra città aveva accettato di mantenere?”. Il dilemma, molto shakespeariano, deflagra in multiple contrapposizioni (fratello contro fratello, figlio versus padre, cowboy e indiani, uomini e donne) nello scenario della casa di Wesley che arresta Frank ma, per precauzione, invece di condurlo nelle celle del tribunale, dall’altra parte della strada, lo chiude nel seminterrato. David assiste, impotente e titubante, all’evolversi del conflitto tra le mura casalinghe: “Non ero sicuro di cosa fosse diventata la nostra famiglia in quei giorni difficili, ma sapevo che dovevamo stare vicini. Eravamo sotto assedio. Dovevamo sostenere meglio che potevamo le pareti della nostra casa”. È grazie al suo punto di vista che Larry Watson può raccontare gli sviluppi che travolgono la famiglia Hayden. È un modo brillante per vedere la storia di Montana 1948 da più angolazioni perché, come annota David, quel momento “segnò una tale frattura nella nostra vita, un abisso che divise definitivamente ciò che eravamo, e che non saremmo più potuti essere, da ciò che saremmo diventati, che bisognerebbe trovare un’unità di misura più adeguata”. Se, come direbbe ancora Richard Ford, “fino ad allora il tempo era stato quasi senza cuciture, l’ordine durevole della vita familiare”, da lì il destino degli Hayden è sconvolto per sempre. Le peculiari caratteristiche morfologiche del Montana hanno un peso determinante, anche se Larry Watson pone al centro dell’attenzione le vicende umane. L’equilibrio di Montana 1948 sta esattamente tra i silenzi della wilderness e le chiacchiere cittadine, tra gli echi delle montagne e il rumore dei pensieri. La scrittura si insinua proprio in quella dimensione, rilevando con eleganza e senso della misura l’attrito tra le pause implicite alla vastità del territorio del Montana con gli scatti imprevedibili degli esseri umani che lo abitano. Un piccolo classico, una riscoperta obbligatoria.martedì 15 settembre 2020
Jesmyn Ward
lunedì 14 settembre 2020
Hakim Bey
Tra gli esempi di zone autonome temporanee che Hakim Bey snocciola nei primi capitoli, tra i covi dei pirati ai Caraibi e le comuni francesi, spicca l’esempio di Fiume. L’estemporanea spedizione guidata da Gabriele D’Annunzio nel settembre 1919 produsse una festa senza fine: dominavano poesia, musica e fuochi d’artificio. Secondo la sintetica ricostruzione di Hakim Bey, “l’intera attività del governo consisteva in questo. Diciotto mesi dopo, quando vino e soldi finirono e finalmente si fece viva la flotta italiana piazzando qualche colpo di cannone nel municipio, nessuno ebbe più l’energia per resistere”. L’episodio rende bene l’idea di cosa può nascere da un “caos come somma di ordini” e della forma che può assumere la zona autonoma temporanea che nella complessità dell’articolazione di Hakim Bey si rivela una costruzione molto più elastica e multiforme delle sue possibili e repentine applicazioni reali. Confessando di essere “sia un cavernicolo che un mutante che viaggia tra le stelle, sia un truffatore che un principe libero”, Hakim Bey si concede gli spazi, le divagazioni, le estrapolazioni per coltivare “una politica del sogno, urgente come l’azzurro del cielo”. Allora si presta subito a indirizzare T.A.Z. su un giusto binario, rispondendo alle velleità dannunziane, con il pensiero contemporaneo e più consono di Renzo Novatore quando sosteneva che “qualsiasi società che edificherete avrà i suoi limiti. E fuori dai limiti di qualsiasi società vagheranno gli irregolari vagabondi eroici, con i loro pensieri selvaggi & vergini, quelli che non riescono a vivere senza programmare sempre nuove spaventose fiammate di rivolta!”. È una collocazione della zona temporanea autonoma ante litteram, che spalanca le porte su una raffica di comunicazioni alimentate dall’idea di Hakim Bey per cui “le nostre immagini di elezione hanno la potenza dell’oscurità, ma tutte le immagini sono maschere & dietro queste maschere giacciono le energie che possono volgere alla luce & al piacere”. Il linguaggio spesso è criptico, ma l’irruenza è genuina: ci sono elementi di provocazione e di disturbo, ma nella sua complessità T.A.Z. ha il pregio di spingersi in direzioni inusuali, alla ricerca ostinata di “un nesso di autonomia, un virus nel caos che si diffonde nella sua più esuberante forma clandestina”. C’è una visione che è irrituale, anche disordinata, volendo, ma è sempre vitale e, ancora di più, attualissima. La zona autonoma temporanea, al di là delle applicazioni concrete e storiche è una concezione filosofica, una dimensione mentale che si apre a più possibilità, a partire dalla “tattica di sparizione”, laddove “la sua massima forza risiede nell’invisibilità. In quello T.A.Z. mantiene tutto il potenziale eversivo, nella rocambolesca scrittura di Hakim Bey ed è sorprendentemente adeguato ai nosti giorni quando si chiede “che razza di artisti sfigati dal cervello da blatta ha cucinato questa sbobba dell’apocalisse”, sottolinenando che “in mezzo a un popolo che non sa creare o giocare, ma sa solo lavorare, anche gli artisti non hanno altra scelta che quella tra anarchia & monarchia. Come chi sogna, devono possedere & possiedono le proprie percezioni”. Per Hakim Bey, “l’arte è una forma di barbarie bizantina adatta solo ai nobili & ai pagani” e “racconta fascinose bugie che divengono vere”. È lo snodo, a saldo di centinaia di altre deviazioni, sollecitazioni e corrispondenze, che rende T.A.Z. è un’ipotesi che mantiene inalterata il suo peso specifico e che soprattutto apre degli spiragli quando proclama con forza che “chi se ne frega se è impossibile. Cos’altro possiamo sperare di ottenere oltre all’impossibile? Dovremmo aspettare che sia un altro a svelare i nostri veri desideri?”. In questo Hakim Bey tocca uno dei punti più sensibili, accorgendosi che se “nessuno vive realmente nulla, tutti ridotti allo stato di spettri”, la zona autonoma temporanea è il luogo privilegiato dove maturare “la propria rabbia & disgusto & i veri desideri per balzare verso l’autorealizzazione & la bellezza & l’avventura”. Approvato da tutti i ribelli con o senza causa, compresi Allen Ginsberg e (soprattutto) William Burroughs.







